Ho provato Clubhouse e vi dico cosa penso
“Clubhouse è come un villaggio turistico quando non vai in vacanza da molto tempo”: rispondo così a chi mi chiede cosa penso di questo fenomeno già tanto amato quanto molto discusso nei giorni cui l’hype è altissimo. Innanzitutto, parte da una app: scaricandola si scopre che Clubhouse è un nuovo social network dove ascoltare e parlare.
La voce infatti è l’unico mezzo, tutto il resto non esiste: non ci sono immagini, non siamo costretti a mostrarci sempre in tiro, modificati e filtrati al massimo, non possiamo mettere e ricevere like, zero possibilità di scrivere e inviare messaggi.
Anche per accedere c’è bisogno di un invito, riservato per ora solo ai possessori di iPhone. Una volta nelle “stanze”, che creiamo o scegliamo tra quelle già esistenti in base ad un argomento, alziamo la mano per chiedere di intervenire sul “palco” e interagire così con gli altri “speaker” nella massima libertà di cambiare “room”, entrare e uscire in qualsiasi momento, o invitare altri contatti.
Perché il meccanismo del “segui” è lo stesso di Instagram, così come sono identiche le dinamiche che riguardano i followers.
Quello che ho notato dopo aver iniziato la frequentazione di Clubhouse è che le persone hanno voglia di raccontarsi e condividere. Qualcuno pure di vendere le proprie competenze, ma si sa che i marketer sono ovunque.
È vero che in qualche caso, e in qualche stanza, l’effetto “cricca” è altamente probabile ma preferisco concentrarmi su quello che di buono questo social sta mostrando: è innanzitutto un contenitore di storie molto potente.
Ogni chat è un esperimento unico e praticamente irripetibile nelle dinamiche tra i partecipanti, in cui il flusso del discorso si costruisce e modifica continuamente in un saliscendi tra temi alti e chiacchiere senza pretese, con tutto il tempo a disposizione.
Così puoi iniziare col cazzeggio puro e arrivare a parlare qualche istante dopo con Gianluca Neri, il produttore di SanPa, degli aspetti più controversi di San Patrignano e della lavorazione della docuserie Netflix. O beccare a notte fonda Biagio Antonacci che, mentre suona la chitarra, chiede a Giorgia come si trova a fare la ragazza alla pari a Londra.
Su Clubhouse succede davvero di tutto: da Morgan che parla di Aristotele a Nek che interviene in una room di radiofonici confessando l’emozione che prova ancora quando un suo pezzo passa alla radio, fino alle osservazioni brillanti di giovani appassionati di politica nella stanza Agorà dedicata alla crisi di governo.
Trovo affascinante che non ci sia una scaletta, rende tutto fluido nonostante qualche moderatore continui ad insistere sulla necessità di un “palinsesto” per dare ordine alle varie stanze. Io direi che si può anche soprassedere: il bello di un social del genere è l’estrema libertà, non la programmazione.
Ma veniamo alla domanda che tutti ci stiamo facendo, online e offline: quali prospettive ci sono? Nessuno può dirlo perché nessuno sa che forma prenderà Clubhouse in futuro e che fine farà.
La mia idea? In un mondo post-Covid in cui il lockdown sarà solo un brutto ricordo e la routine ci avrà di nuovo risucchiati, riprenderemo finalmente a vivere la nostra socialità in maniera “fisica”, chiacchierando davanti ad un caffè, andando a cena, in discoteca e tornando ad incontrarci dal vivo. Nell’attesa godiamoci questo villaggio turistico.
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