Buon compleanno Gmail! Mi dispiace, ma ti lascio
L’email più popolare del mondo ha compiuto 20 anni nel 2024. Ma c’è chi non ne vuole più sapere. Ma ecco perché (ancora) non esistono alternative valide al servizio di Google che conta 1,2 miliardi di utenti a livello globale
Anche lui aveva pensato a un pesce d’aprile. Il 1° aprile del 2004 è una data che l’attuale capo di Google, Sundar Pichai, ricorda bene. Quel giorno l’ingegnere nato a Madurai, nell’India meridionale, fece il suo primo colloquio di lavoro per il colosso californiano. Fu anche quello in cui l’azienda, all’epoca nota solo per il suo motore di ricerca, lanciò il prodotto con cui avrebbe conquistato un’altra frontiera di Internet.
Si trattava di Gmail, il primo servizio di posta elettronica a offrire ai propri utenti un gigabyte di memoria, da 250 a 500 volte quanto all’epoca offrivano concorrenti come Hotmail e Yahoo. Abbastanza da lasciare increduli molti utenti che, come Pichai, per diverso tempo pensarono a uno scherzo. Al punto che, quando un’autorevole agenzia di stampa come Associated Press si occupò della notizia, molti lettori la contattarono per informarla che si era fatta abbindolare dall’azienda. Google era infatti solita, e lo è ancora oggi, celebrare il 1° aprile con uno scherzo ad hoc. Nel 2004 invece faceva sul serio.
Pesce d’aprile
L’intenzione era quella di ripensare uno degli strumenti più utilizzati di internet. «Usavo molto la posta elettronica, ma per me semplicemente non funzionava. La mia email era un disastro», aveva spiegato nel 2005 Paul Buchheit, il creatore di Gmail. Spam, lentezza, spazi di archiviazione limitati avevano reso la gestione delle email una seccatura da cui molti utenti si sarebbero liberati volentieri. Google aveva puntato sul proprio motore di ricerca, grazie al quale sarebbe stato possibile recuperare le email rapidamente, senza doverle necessariamente ordinare in cartelle. «Google crede che le persone dovrebbero poter conservare la propria posta per sempre. Ecco perché Gmail offre 1.000 megabyte (un gigabyte) di spazio di archiviazione gratuito», riportava il comunicato di vent’anni fa.
«I messaggi importanti finivano irrimediabilmente sotterrati e le conversazioni erano un guazzabuglio…», aveva dichiarato Buchheit. «Non riuscivo sempre a raggiungere la mia posta elettronica perché era bloccata su un computer e le interfacce web erano insopportabilmente scomode. E ricevevo spam. Molta».
Alla vigilia del lancio, gli ingegneri potevano contare solo su 300 vecchi Pc Pentium III e furono costretti a limitare il servizio a poche centinaia di invitati, che potevano a loro volta invitare un paio di amici ciascuno. La novità del servizio e la scarsità degli inviti scatenarono un fortissimo interesse nell’ambiente. Iniziarono a spuntare aste su eBay dove il costo degli inviti arrivava a 250 dollari l’uno. Google continuò gradualmente ad aumentare il numero di persone che ogni utente poteva invitare, aprendo il servizio a tutti solo a febbraio del 2007. «Quando l’abbiamo lanciato, eravamo un motore di ricerca», ha ricordato il cofondatore di Google, Larry Page. «Per noi lanciare un prodotto di posta elettronica è stato un salto».
Inizialmente riservato a poche migliaia di fortunati, dopo vent’anni Gmail è utilizzato da 1,2 miliardi di persone, quasi il 15 per cento della popolazione mondiale. Per Google il lancio ha segnato il primo passo nell’espansione del suo impero oltre il motore di ricerca. Dopo quattro mesi è arrivato il debutto in borsa. Poi l’acquisizione di Android e YouTube e il lancio di Maps, Docs e Chrome. Un percorso che ha finito per proiettare l’azienda nel ristretto gruppo di società il cui capitale vale più di 2.000 miliardi di dollari. Soglia superata per la prima volta alla fine dello scorso aprile in seguito all’annuncio dei risultati del primo trimestre dell’anno, che sembra aver rassicurato gli investitori sulle possibilità per il gruppo di diventare uno dei leader nel mondo dell’intelligenza artificiale (e del primo dividendo della sua storia).
«Buon ventesimo compleanno, Gmail! Sono contento che non si sia trattato di un pesce d’aprile, dopotutto», ha scherzato quest’anno Pichai, ora amministratore delegato della società madre di Google, Alphabet.
Privacy e controllo
Come gli altri prodotti, anche Gmail alimenta il business pubblicitario di Google. Fin dall’inizio l’idea dell’azienda di Mountain View è stata quella di usare parole chiave rilevate all’interno di messaggi per proporre agli utenti link e pubblicità mirate. Una pratica che ha scatenato immediatamente le proteste di attivisti e difensori della privacy. Già il 6 aprile del 2004, diverse organizzazioni inviarono una lettera ai fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin, chiedendo che il servizio fosse sospeso. «Analizzare le comunicazioni personali nel modo proposto da Google significa far uscire il proverbiale genio dalla bottiglia», riportava la lettera. Negli anni successivi Google ha anche affrontato diverse cause per violazione delle leggi contro le intercettazioni. Nel rispondere a una di queste accuse, nel 2013 gli avvocati dell’azienda hanno dichiarato che gli utenti di Gmail non hanno una «ragionevole aspettativa» che le loro comunicazioni restino riservate. Nel 2016 ha patteggiato con un gruppo di utenti che aveva intentato una class action in California e ha acconsentito a non «leggere» più le mail prima che gli utenti possano avervi accesso. Uno degli innumerevoli problemi legali in cui è incappato il colosso di Mountain View, che ormai ha preso il posto che negli anni Novanta occupava Microsoft in cima ai bersagli dell’antitrust statunitense.
Ma per alcuni il problema non è solo la privacy. Nonostante lo spazio di archiviazione, ora arrivato a 15 gigabyte, la precisione della ricerca e il tentativo di filtrare e assegnare priorità alle mail, la gestione della casella di posta è un problema tutt’altro che risolto. Dove prima gli utenti erano costretti a eliminare sistematicamente i messaggi per rimanere entro il limite di pochi megabyte oggi, al contrario, devono fare i conti con un mare magnum di email non lette e allegati non aperti che si nascondono tra messaggi promozionali e newsletter. A dare voce a questa opinione è Ezra Klein, editorialista del New York Times, che ha fatto una scelta drastica: quella di eliminare il suo account.
«Qualche mese fa ho promesso di riprendere il controllo della mia vita digitale. Ho iniziato con la mia email», ha scritto in un articolo dedicato proprio al 20esimo anniversario di Gmail. Una reazione, ha spiegato, alla «passività» indotta dai giganti della tecnologia, che negli ultimi anni hanno iniziato a monetizzare lo spazio aggiuntivo occupato da e-mail, foto e altri file lasciati ad accumulare nel “cloud”. In cambio di una somma mensile Apple e Google consentono ai propri utenti di sforare i limiti dell’archiviazione gratuita, che ormai non basta a contenere i file che nessuno ha più voglia di cancellare.
Neanche gli algoritmi, secondo Klein, riescono a supplire. Generare automaticamente raccolte di foto che nessuno ha scelto veramente di tenere e playlist di canzoni che non si ascoltano più da tempo non fa veramente la differenza. Come nel 2004, serve un altro approccio.
Nuovi approcci
Diversi si contendono la corona di anti-Gmail. L’alternative scelta da Klein è Hey, un servizio che risolve alla radice il problema dell’affollamento della casella di posta, filtrando tutte le mail in arrivo. Funziona così: la prima volta che si riceve un messaggio da un determinato mittente, l’utente deve scegliere se approvarlo. Se il responso è negativo, l’utente non riceverà mai più messaggi da quell’indirizzo (a meno che non si scelga di recuperarlo da una sezione a parte).
«Penso che si deve risalire al lancio di Gmail per tornare all’ultima volta che qualcuno è stato veramente entusiasta dell’e-mail», aveva detto Jason Fried, fondatore della società che ha realizzato il servizio, Basecamp. «Non è cambiato molto da allora. Stiamo cercando di portare alcuni nuovi approcci». Dopo averle filtrate, Hey suddivide le mail tra quelle a cui l’utente dovrà rispondere, quelle solo da leggere (come le newsletter) e quelle che contengono ricevute e conferme di transazioni. È possibile scegliere se rispondere alle email subito o successivamente. A queste ultime, che vengono raccolte in una pila in fondo alla pagina, si può rispondere in una finestra a parte, inviando così messaggi in serie senza ogni volta tornare alla casella di posta. Le newsletter e altre email da leggere sono confinate in una sezione ad hoc, dove è possibile leggerle scorrendo un “feed” come quello dei social network. Un’altra area è quella in cui vengono salvare le ricevute e le email di conferma che possono essere anche “messe da parte”, ad esempio in vista di un viaggio. «Hey mi costringe a fare delle scelte invece di incoraggiarmi a evitarle», ha sintetizzato Klein, convinto che la troppa facilità d’uso di servizi come quelli offerti da Google e Apple finiscano per diventare un peso per i consumatori. Meglio invece servizi che costringano gli utenti a prendere decisioni, anche se alcune funzionalità non sono all’altezza.
È il caso della ricerca, che lascia a desiderare rispetto a quella offerta da Google. Manca inoltre quella che forse è la caratteristica principale di Gmail: il fatto che il servizio è gratuito. Hey ha invece un costo di almeno 99 dollari l’anno, che lo rende appetibile a un pubblico decisamente più ristretto.
Per chi cerca un servizio che privilegia soprattutto la sicurezza e la privacy, un’alternativa può essere la svizzera ProtonMail. A differenza di Google, non guadagna dai dati personali degli utenti ma dagli abbonamenti. A differenza di Hey prevede anche una fascia gratuita, limitata a un gigabyte di memoria. Un’alternativa «meno inquietante» rispetto a Google, come ha scritto il Washington Post, che in un articolo di Shira Ovide ha illustrato i pochi, semplici passaggi con cui è possibile traslocare da Gmail. Questo grazie alle normative europee, che consentono di trasferire tutte le proprie mail a ProtonMail (lasciando quelle originali nella casella Gmail). In questo modo è possibile mettere alla prova il nuovo servizio e sperimentare «la vera libertà tecnologica», come la chiama Ovide, di poter trasferire liberamente i propri dati senza essere vincolati a una singola azienda. Per chi vuole separarsi da Gmail, il servizio invita a impostare l’inoltro automatico dei messaggi dal servizio di Google a quello della società svizzera.
Precedenti e flop
Ma un esodo di massa, per il momento, è difficile da ipotizzare. In passato anche rivali del calibro di Facebook hanno cercato di insidiare il primato di Google nel campo delle email. A novembre 2010 il social fondato da Mark Zuckerberg lanciò un proprio servizio di posta elettronica, dotando ogni suo utente di un indirizzo al quale poteva ricevere le email. Anticipato dalla stampa come un “Gmail killer”, si rivelò invece un flop. Fu smantellato dopo poco più di tre anni, senza troppo clamore.
Negli ultimi anni Gmail è diventato sempre di più la porta d’accesso a innumerevoli altri servizi e social media. Ogni volta che un sito richiede di creare un profilo c’è la possibilità di accedere tramite le credenziali Gmail, che per milioni di persone sono diventate il modo di accedere alle proprie applicazioni e anche a servizi essenziali. Una centralità che potrebbe averla messa al riparo dalle campagne di boicottaggio che periodicamente si abbattono sui grandi social network. Nel caso di Gmail invece è difficile sentire appelli coordinati a cambiare email.
Un altro elemento è anche legato a quanto poco sia cambiato negli anni. Nonostante una veste grafica più accattivante e l’introduzione di funzionalità utili come la selezione delle email considerate prioritarie e le card che offrono informazioni legate al contenuto dei messaggi (come nel caso di voli aerei e della spedizione di pacchi), dal 2004 il funzionamento di Gmail è rimasto pressoché indistinguibile. Nonostante il successo, che l’ha reso parte integrante del funzionamento del web, continua a non dare nell’occhio e a non essere messo in discussione. Almeno finché qualcuno non riuscirà a rompere gli equilibri e a imporre qualcosa di diverso. Proprio come ha fatto Google vent’anni fa.