Le Big Tech vogliono i nostri dati? Li pagassero: perché è ora di istituire un reddito da profilazione
I consumatori operano come “minatori” per le grandi piattaforme, senza ricevere nulla in cambio. È giunta l’ora che le Big Tech paghino per le nostre informazioni personali
Immaginate di essere pagati per il vostro tempo sui social network. Non perché siate delle web star o degli influencer ma solo perché esistete. Può sembrare assurdo vero? Eppure se ci concederete il tempo necessario alla lettura di questo articolo, alla fine l’idea potrà non risultare così folle. La tematica della valorizzazione economica del dato personale è al centro del dibattito ormai da qualche anno, sebbene di recente abbia conosciuto un rinnovato vigore per almeno quattro circostanze.
La prima è rappresentata dalla direttiva comunitaria 770/2019 (recepita nell’ordinamento nazionale con il decreto legislativo 4 novembre 2021, n. 173), con cui, per la prima volta, si è dato atto che l’accesso a contenuti o servizi digitali può avvenire non soltanto dietro il pagamento di un prezzo, ma anche mediante la fornitura dei dati personali del consumatore: dunque, oltre al riconoscimento della data protection, quale diritto fondamentale, si è sentita la necessità di garantire ai consumatori specifici rimedi contrattuali nell’ambito di questi nuovi modelli commerciali.
La seconda è costituita da una crescente insofferenza da parte delle istituzioni comunitarie e di numerosi stakeholder verso il cosiddetto targeted advertising, ossia quella pubblicità personalizzata che l’utente riceve sulla base dei dati che ha condiviso sui social network, o navigando in rete o sulla base degli acquisti che ha effettuato in precedenza.
Sebbene questa tipologia di pubblicità abbia costituto la principale leva di crescita dei grandi colossi della Rete e abbia garantito, al contempo, un sempre maggior numero di servizi “gratuiti” (ma che in realtà l’utente paga, più o meno consapevolmente, attraverso i suoi dati personali) e un’esperienza di navigazione maggiormente in linea con le proprie esigenze, ciò ha anche innescato dinamiche anti-concorrenziali e spinte monopolistiche che appaiono incompatibili non solo con la regolazione europea in materia, ma anche con quell’idea di mercato aperto e concorrenziale che da sempre anima l’Unione europea.
Non a caso (e ciò costituisce la terza circostanza) i due più importanti provvedimenti in fieri a livello europeo, il Digital Markets Act (Dma) e il Digital Services Act (Dsa) dedicano ampio spazio al tema dell’impatto che la gestione dei dati può avere per garantire l’apertura e la contestabilità dei mercati digitali.
Ad esempio, nel Dma (sul cui testo finale un accordo politico è stato raggiunto lo scorso 25 marzo) si prevede che i cosiddetti gatekeepers, ovverosia i soggetti di maggiori dimensioni in grado di avere un impatto significativo sul mercato, non possano combinare i dati personali provenienti dai loro servizi (da quegli specifici servizi individuati nel provvedimento di designazione come gatekeeper) con quelli provenienti da servizi di terzi.
Si pensi anche alle previsioni contenute nel Dsa sui cosiddetti sistemi di raccomandazione, quelli a cui tutti noi siamo abituati e attraverso cui le piattaforme suggeriscono contenuti o prodotti che potrebbero piacerci in base alle nostre precedenti scelte: ancora una volta si cerca di porre un argine al potere di profilazione delle grandi piattaforme imponendo loro di offrire agli utenti un sistema di raccomandazione che non si basi sulla loro profilazione.
Da ultimo, come non citare la proposta di regolamento nota come Data Act presentata dalla Commissione europea lo scorso 23 febbraio, finalizzata a liberare il potenziale della data economy, garantendo al contempo un mercato equo e concorrenziale. Si tratta di un corpus normativo che permetterà all’utente finale di avere il pieno controllo dei dati generati dai dispositivi o dai prodotti che utilizza e, ancor prima, richiederà che gli stessi siano progettati e realizzati in modo tale che i dati generati dal loro utilizzo, siano per impostazione predefinita, facilmente accessibili all’utente.
Quanto sopra evidenzia, dunque, al di là di ogni ragionevole dubbio, come i dati siano diventati una risorsa essenziale per la crescita economica, la creazione di posti di lavoro e il progresso della società: tuttavia, lo sfruttamento di tali informazioni non deve prescindere dalla corretta tutela dei consumatori. Solo riportando consumatori e cittadini al centro della scena, la data economy può davvero prosperare ed evitare pericolose degenerazioni. È necessario, allora, gettare le basi per lo sviluppo di un’economia dei dati più responsabile, sostenibile e rispettosa dei diritti dei consumatori attraverso un dialogo aperto che coinvolga le istituzioni e le imprese.
Il mercato dei dati non può essere visto come un mercato esclusivamente business to business (B2B), poiché i consumatori finali rappresentano quasi interamente una fonte di valore aggiunto.
Eppure, se da un lato, c’è per l’appunto questo riconoscimento, anche normativo, della nuova funzione del dato personale quale controprestazione per la fornitura di contenuti e servizi digitali, dall’altro si assiste ad una spinta di segno opposto, tesa a limitare lo sfruttamento dei medesimi dati da parte di quegli operatori che su di essi hanno costruito la propria fortuna.
Come uscirne? Responsabilizzando e potenziando la figura del consumatore attraverso quello che potremmo ribattezzare con un termine neanche troppo ardito il “Reddito da profilazione”, che avrebbe il duplice beneficio, ove comparato con il più noto “reddito di cittadinanza” di poter diventare in prospettiva un volano positivo per tutta l’economia digitale, rendendola peraltro più propriamente circolare, e quello, niente affatto trascurabile di questi tempi, di non appesantire in alcun modo le casse dello Stato.
Già oggi il regolamento europeo sulla protezione dei dati personali (Gdpr) prevede una serie di obblighi informativi a favore dei soggetti i cui dati sono oggetto di trattamento. Perché non inserire una nuova prescrizione, in forza della quale, laddove tali dati sono rilevanti ai fini di una transazione economica, il loro prezzo deve essere comunicato al consumatore? Perché non tramutare quel valore ipotetico in pagamento concreto per il soggetto che, consapevolmente, scelga di conferire i propri dati a questa o a quella piattaforma? Perché, in buona sostanza, essendo noi utenti i fornitori della materia prima con la quale la cosiddetta data economy funziona, non possiamo essere anche destinatari di una parte dei dividendi generati da quel sistema economico? I dati devono tornare a essere un elemento di concorrenza, non di monopolio e il reddito da profilazione potrebbe essere la prima di una serie di iniziative volte a ribilanciare, attraverso una sorta di “give back digitale” da parte delle Big Tech, un sistema che appare oggi fortemente squilibrato e rischia di esplodere, portando via anche quanto di buono ha offerto finora.