Un altro calcio è possibile: il miracolo del centro storico Lebowski
Giocavano per divertirsi. E perdevano sempre. Oggi competono in Promozione. Grazie ai tifosi diventati anche soci del club fiorentino. Ecco un modello da cui può ripartire il calcio contemporaneo
Un sabato pomeriggio del 2004 un gruppo di studenti fiorentini decide di andare nella periferia nord di Firenze a veder giocare la peggior squadra di calcio dilettantistico di tutto il territorio, l’a.c. Lebowski. Durante il campionato il team aveva totalizzato zero punti, conquistando l’unica posizione da cui non si poteva retrocedere: l’ultima. Giocavano in terza categoria, la più scarsa del calcio italiano, indossavano una maglia nera e grigia perché i due colori erano i più economici che si potessero permettere, e per disputare le partite o andare in trasferta si auto-tassavano.
Sulle pagine della rivista sportiva “Calcio Più” venivano descritti come una squadra mitologica che dopo ogni sconfitta “si piegava ma non si spezzava”. Un racconto troppo appetibile per un gruppo di 15enni in vena di marinare la scuola: seduti sugli spalti del campo Paganelli, i giovani tifosi si innamorano della storia di un team scanzonato che va contro ogni logica del calcio moderno, per cui avere spazio in campo conta più della vittoria. Come il protagonista del film dei fratelli Cohen da cui la squadra prendeva il nome, il Drugo, i giocatori del Lebowski affrontavano le cose con leggerezza, “come venivano”.
18 anni dopo, la formazione maschile gioca in Promozione, tra la serie più competitive dei campionati dilettantistici federali, quella femminile in C, il livello più alto dove una squadra di calcio finanziata dai soci sia mai arrivata, ed è conosciuta dalle tifoserie di tutto il mondo, dalla Nuova Zelanda alla Germania, per il nuovo modo vivere il calcio: partecipato e libero. Nel 2010 gli ultras del Lebowski decidono di creare una società di cui essere i primi soci e di renderla «a misura dei propri tifosi, non affiliata a una famiglia proprietaria, fondata sugli interessi della collettività, che può decidere ogni aspetto, militare e impegnarsi per il team», spiega a TPI Matthias Moretti, responsabile comunicazione del Lebowski, a cui nel 2020 è stato aggiunto l’acronimo c.s., “centro storico”, per marcare il legame con la città di Firenze.
Modello rivoluzionario
Il centro storico Lebowski, oggi registrato ufficialmente come cooperativa, conta circa 1.700 soci. L’iscrizione alla cooperativa costa 25 euro e ogni anno si versa un contributo forfettario di 100 euro per il suo funzionamento, ma non corrispondere la quota annuale non fa perdere il titolo di socio. Essere socio vuol dire dare linee d’indirizzo alla squadra. «Non c’è uno che dà tutto ma tanti che danno poco», spiega Matthias. Ogni tre anni si elegge un consiglio di amministrazione e un nuovo presidente, ma la maggior parte delle decisioni vengono condivise con l’assemblea. Un modello di organizzazione adottato da decine di squadre dilettantistiche in tutta Italia, da Bari a Padova, che sta emergendo come un antidoto alla deriva del calcio classico, gestito da un unico grande proprietario votato alle logiche del business, di cui la parabola della Juventus è solo uno degli esempi.
«Proprio il modello di gestione tradizionale che stava allontanando i tifosi dalle curve ci ha spinto a seguire il Lebowski prima da ultras e poi a decidere di fare il passaggio verso la sua gestione, perché volevamo essere sicuri di quello che vedevamo in campo, in quanto siamo noi stessi a deciderlo. Non esiste qualcuno che all’oscuro dei tifosi può fare e disfare a suo piacimento», prosegue Moretti. «L’esempio non è solo quello della Juventus. Nel calcio dilettantistico e della serie C succede spesso che le squadre falliscono all’improvviso per debiti o malversazione di vario tipo da parte delle proprietà, di cui i tifosi non sanno nulla perché decide tutto la società e lo sporco se lo lava in famiglia. I tifosi sono solo clienti perché nel momento in cui la squadra fallisce o sparisce possono solo piangere o arrabbiarsi quando i giochi sono fatti.
È questo il modello che noi rifiutiamo, e il nostro modo di rifiutarlo è stato quello di creare una squadra nostra, con cui possiamo anche perdere o retrocedere, ma con cui siamo sicuri che non faremo mai un tonfo del genere», continua. Un modello che fino ad oggi ha mostrato di poter giocare ad armi pari anche contro le squadre gestite in modo classico, tanto da aver totalizzato un buon punteggio anche nei campionati di più alto livello. «Se contro altre squadre organizzate in maniera tradizionale vinciamo noi, è importante sia come soddisfazione sportiva sia perché dimostriamo che il modello funziona meglio», conclude Matthias.
Un tifo di altri tempi
La corrispondenza tra il ruolo di socio e di tifoso ha fatto sì che gli ultras del Lebowski diventassero una delle curve più selvagge, rumorose e appassionate dei campionati dilettantistici, che fa sentire speciali i giocatori anche in una serie minore. Tommaso Ciabatti è uno di loro. Ha 19 anni e gioca nella prima squadra maschile dopo un anno negli juniores. «Quando arrivi il sabato o la domenica e ti vedi una marea di gente sulle tribune che inizia a cantare prima che inizi la partita, da prima che l’arbitro fischi fino al triplice fischio, ti emozioni, rimani estasiato. È una cosa che dà la carica perché quando li vedi pensi “cavolo, ci sono loro a sostenermi”» racconta a TPI. È arrivato al Lebowski lo stesso anno di Borja Valero, centrocampista spagnolo che dopo una carriera di militanza nei club di alto livello, dall’Inter alla Fiorentina, ha deciso di giocare nella squadra di calcio, di cui ora è uno dei soci. A Firenze è considerato il sindaco. Quando Tommaso ha giocato la partita di esordio in prima squadra, dopo aver segnato il primo gol, è stato Valero a dargli il cambio. «Ero felicissimo, di solito uno non è felice perché viene sostituito, ma ho dato il cambio a lui, che mi ha fatto i complimenti. È stato bellissimo».