La bolla del calcio è esplosa: la Superlega non era avidità, ma paura di fallire
Il presidente dell’Uefa, Aleksander Ceferin, ha definito il piano della Superlega del calcio “una proposta orribile guidata dall’avidità”. E molti altri, in queste ore, hanno usato questo stesso termine – “avidità” – per criticare la mossa dei club più ricchi che vogliono portarsi via il pallone e giocare solo tra di loro. A ben vedere, però, dietro il progetto della Superlega – che sembra già naufragato – non c’era esattamente un gruppo di miliardari col portafoglio gonfio bramosi di accumulare ulteriori ricchezze. Bensì un manipolo di grandi aziende sull’orlo della bancarotta che fanno cartello per salvarsi e non perdere i loro privilegi. Non era avidità, ma paura di fallire.
La crisi dei top club
Secondo l’ultimo rapporto Football Money League di Deloitte, nella stagione 2019/2020, a causa della pandemia che ha tenuto chiusi gli stadi, le prime 20 società europee per fatturato hanno perso complessivamente 2 miliardi di euro. Il Manchester United ha visto crollare i ricavi da 711 a 580 milioni. Il Real Madrid – che aveva programmato di sfondare quota 800 milioni – è sceso a 715 (42 in meno rispetto al bilancio precedente).
In Italia, la Juventus ha chiuso il 2020 con un rosso di 113 milioni, debiti finanziari netti per 357,8 milioni e un patrimonio netto di 125,5 milioni, più che dimezzato rispetto all’anno precedente.
Il Barcellona al 30 giugno 2020 era sotto di 97 milioni, ma a preoccupare in Catalogna è soprattutto la spaventosa montagna di debiti da pagare: 1,1 miliardi di euro, di cui 730 milioni con scadenza a breve termine. L’indebitamento finanziario netto – ossia quello che rileva effettivamente per le norme del Financial Fair Play della Uefa – è invece di poco inferiore al mezzo miliardo (ma il Barça ha fatturato l’anno scorso 715 milioni).
Pesante anche la zavorra che pesa sul Tottenham, club della North London, che ha iscritti a bilancio circa 700 milioni di indebitamento, quasi interamente dovuti alla costruzione del nuovo stadio. Da anni la Premier League è tra i campionati più esposti dal punto di vista finanziario, ma è anche quello con i ricavi più alti (basti pensare che 7 delle 20 squadre più ricche del pianeta sono inglesi).
Ma torniamo a Barcellona, dove gioca il calciatore più famoso del pianeta: Lionel Messi. A gennaio il quotidiano spagnolo El Mundo ha rivelato le cifre mostruose – e fino a quel momento segretissime – del rinnovo di contratto accordatogli nel 2017 dal club catalano: 555 milioni di euro lordi in quattro anni. In pratica Messi da solo incassa in un anno quasi quanto il Milan.
Nell’ultima stagione, al Barcellona, gli stipendi hanno assorbito più del 70% dei ricavi, superando così il livello massimo oltre il quale non spingersi secondo l’Uefa. Più o meno la stessa quota grava sui bilanci di Juventus e Paris Saint Germain, mentre al Real Madrid il costo del personale vale il 60% del fatturato e al Bayern Monaco – squadra campione d’Europa in carica e modello di sostenibilità economica – poco più del 50% (dati “Football Benchmark Kpmg”).
La scorsa estate la crisi economica del pallone ha fortemente impattato sul calciomercato. Barcellona e Real Madrid – che l’anno prima avevano speso rispettivamente 120 milioni per Antoine Griezman e 115 milioni per Eden Hazard – non hanno praticamente fatto acquisti. Il trasferimento più oneroso è stato quello del giovane Kai Havertz, che il Chelsea ha pagato 80 milioni ai tedeschi del Bayer Leverkusen. Sembrano già lontani i tempi dei 222 milioni messi sul piatto nel 2017 dallo sceicco del Paris Saint Germain per assicurarsi le prodezze del funambolo brasiliano Neymar.
Già due anni prima del Covid, nel 2018, nel suo rapporto “The European Club Footballing Landscape”, l’Uefa sottolineava: “In Europa “il rapporto salari/ricavi medio, ampiamente considerato come uno degli indicatori finanziari chiave per le squadre di calcio, è salito al 63,9%. Per la prima volta negli ultimi sei anni, l’incremento salariale (1,2 miliardi di euro) ha superato la crescita aggregata dei ricavi (1,0 miliardi di euro)”.
Tutti questi numeri certificano che il calcio è in crisi nera. Anche e soprattutto quello dei ricchi. Colpa di un modello di business che nel corso degli anni è diventato insostenibile, tra ingaggi principeschi e cartellini pagati a peso d’oro. Tanto che alcuni analisti hanno parlato di bolla finanziaria. “Il calcio ha perso appeal, rischia di morire”, ha avvertito il presidente del Real Madrid, Florentino Perez, primo regista dell’operazione Superlega insieme allo juventino Andrea Agnelli.
La Superlega e la partita dei diritti tv
I top club, dal canto loro, ritengono insufficiente la cifra che la Uefa riconosce loro ogni anno per i diritti tv sulle coppe europee: la torta – da spartire anche con i club “minori” – è pari a 3,2 miliardi di euro, circa la metà di quanto fattura la Nfl, la lega del football Usa, che però conta circa un decimo dei fan del calcio europeo. Secondo Perez e gli altri, da Champions League ed Europa League si potrebbe ricavare molto di più.
Con la Superlega, grazie a un finanziamento di Jp Morgan, i 20 club più ricchi avrebbero incassato subito una fiche complessiva da 3,5 miliardi di euro da tenere tutta per loro (ma i soldi non potranno essere utilizzati per ingaggi e calciomercato), con la prospettiva di salire a 10 miliardi nel medio periodo.
Il piano era semplice e chiaro: giocare più partite e solo tra squadre blasonate. Ogni settimana ci sarebbero stati dieci scontri tra potenziali finaliste di Champions League. In questo modo gli introiti dai diritti tv erano destinati a lievitare.
Il calcio degli esclusi
La domanda che si poneva, a questo punto, era: che ne sarebbe stato dei club tagliati fuori? Le risorse dei broadcasters televisivi non sono infinite e, se – come prevedibile – la Superlega avesse drenato la maggioranza delle risorse, alle altre competizioni sarebbero rimaste solo le briciole. “La Superlega rischia di uccidere il nostro calcio”, ha protesto l’amministratore delegato del Sassuolo, Giovanni Carnevali.
I fondatori del campionato europeo dei ricchi avevano promesso agli esclusi un risarcimento: 430 milioni l’anno per 23 stagioni, circa 160 milioni in più del contributo Uefa. Difficile capire se sarebbe bastato a evitare il default del calcio medio-piccolo.
Superlega e spending review
Quel che è certo è che la Superlega non sarebbe stata sufficiente da sola a garantire ai suoi iscritti la vita eterna. Senza una profonda revisione del modello di business, i problemi che il Covid ha fatto esplodere sono destinati a riproporsi in futuro. A tal proposito sembra che i top club stessero ragionando sull’introduzione di un sistema di controllo dei costi, anche attraverso un tetto al prezzo dei cartellini. Una sorta di Patto di Stabilità del pallone dopo anni di spese folli: i nobili del calcio che si danno delle regole per prevenire un’altra bolla. Peccato che ci siano arrivati solo adesso che hanno l’acqua alla gola. Avrebbero potuto pensarci anni fa, risparmiandoci questo scisma destabilizzante e anche un po’ anti-sportivo.
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