Sport alternativo: così il calcio popolare boicotta i mondiali in Qatar
Criticano la deriva dello sport moderno. Rifiutano le logiche del capitalismo. E boicottano i mondiali in Qatar. Perché credono a un gioco partecipato, femminista e antirazzista. Così le squadre popolari offrono un nuovo modello contrapposto ai grandi campionati professionistici
«Mi ricordo quando ero ragazzino, dietro a quel pallone nella strada me ne andavo, dentro a quel campetto, terra e brecciolino, mi piaceva correre, le ginocchia mi sbucciavo, quante scarpe rotte, suole consumate, quanti pomeriggi di palleggi sotto casa. Quello era calcio, quello era un gioco, fatto per stare insieme ed era il miglior risultato»: la partita di calcio a cinque femminile dell’Atletico San Lorenzo contro la Lositana si è conclusa con una vittoria per la squadra che prende il nome dal quartiere romano in cui è nata, San Lorenzo, parte della polisportiva fondata nove anni fa da un gruppo di ragazze e ragazzi che frequentavano l’Università La Sapienza di Roma o abitavano a pochi metri dall’ateneo.
Le atlete, che oggi giocano nella serie C del campionato federale, si abbracciano sul campetto da calcio “Cavalieri di Colombo”, guardano il cielo piovoso e stringendosi cantano a squarciagola l’inno composto dal cantautore romano Emilio Stella per la polisportiva: «Il calcio figlio del popolo», che racchiude i principi della società di sport popolare in cui giocano con convinzione ed entusiasmo da anni, che conta anche una squadra di calcio a 11 maschile, una di basket femminile, una di basket maschile, una di pallavolo mista e i settori giovanili di calcio, basket e minivolley. «Daje San Lorenzo, diamoci una mano, che comunque vada, la vittoria è ciò che siamo», continua la canzone.
Claudia gioca da esterno e ha segnato uno dei gol della partita di ritorno della “Coppa Lazio” nella serata in cui festeggia anche il suo 32esimo compleanno. Sorregge un palloncino e sorride mentre le compagne di squadra la attendono fuori dagli spogliatoi per festeggiare. «L’Atletico è una polisportiva che va oltre la semplice pratica dello sport, promuove principi che dovrebbero valere in ogni squadra ma che spesso non vengono rispettati», racconta a TPI.
La divisa bianca che indossa riporta lo slogan: “Sport has no gender”. «Aggregazione, trasparenza, antirazzismo, femminismo»: così Cecilia, 34 anni, capitana della squadra, enuncia i valori contenuti nello statuto della polisportiva, a cui ha aderito sin dalla fondazione perché all’interno vi ha trovato tutto quello che cercava nello sport e che non sentiva più tra gli spalti dello stadio del Verona, che frequentava quando sosteneva una grande squadra di serie A. «Mi piaceva il calcio quando riconoscevo i giocatori: Maldini, Del Piero, Zanetti, ora non si sa più chi è il capitano, i calciatori un giorno sono lì e il giorno dopo se ne vanno. Lo scopo non è più lo sport ormai, perché guadagnano un sacco di soldi. L’Atletico San Lorenzo è nato anche da quello, da un sacco di gente che andava a vedere le partite allo stadio delle grandi squadre della serie A e poi si è stufato. Con gli anni della tessera del tifoso hanno scelto di non andarci più», osserva.
L’introduzione della tessera del tifoso dopo il 2010 è stato uno degli eventi che, nell’ultimo decennio, ha fatto sì che sempre più tifoserie e realtà di quartiere, più o meno legate alle squadre cittadine, dessero vita a società di sport popolare, in rottura con i meccanismi del calcio business o del calcio spettacolo e con l’obiettivo di conquistare spazi di libertà e di autogestione della squadra e del tifo, nonché di proporre un modello che abbracciasse più attivamente la dimensione sociale e politica dello sport e rifiutasse le logiche del capitalismo finanziario che sorreggono le grandi competizioni sportive, in cui le squadre sono controllate da un unico grande proprietario e soggette alla pressione degli sponsor.
Le squadre di sport popolare si finanziano tramite l’azionariato popolare: giocatori e tifosi contribuiscono ogni anno con una quota societaria, in molti casi versata su base volontaria. Gran parte dei fondi vengono da attività di autofinanziamento – feste, forum, festival, sagre, riffe – gli sponsor sono ridotti al minimo e legati perlopiù alle attività commerciali del quartiere in cui sorgono le società. Nel caso della Polisportiva San Precario, fondata a Padova 15 anni fa, si chiede ai soci una quota di 100 euro di iscrizione annuale e si dà la possibilità di partecipare ad attività di autofinanziamento.
Il tutto, come spiega a TPI l’ex calciatore della Polisportiva Stefano Carbone, «in linea con l’obiettivo di garantire la pratica sportiva a basso costo». La società si chiama San Precario perché nata negli anni della proliferazione dei lavori precari, che hanno aperto la strada allo smantellamento delle garanzie dei lavoratori. I suoi fondatori hanno immaginato un santo laico che potesse proteggere i membri della squadra: studenti, lavoratori, disoccupati, operai, artisti, teatranti, appassionati di sport e accomunati dalla volontà di impegnarsi per il benessere della comunità e del quartiere in cui vivevano.
La connotazione sociale e politica della Polisportiva veneta è emersa soprattutto negli anni di pandemia, in cui, non potendo giocare a calcio, i soci hanno avviato un percorso di mutualismo distribuendo la spesa a domicilio e organizzando corsi di doposcuola per i migranti.
Al San Precario, che gioca in seconda categoria nel campionato dilettantistico della federazione, si lega la battaglia per eliminare dai regolamenti della Figc i comma che impedivano ai calciatori provenienti da paesi extra europei di giocare regolarmente i campionati. «Eravamo davanti alla grossissima contraddizione che i ragazzi nostri coetanei di 20 o 22 anni provenienti dal nord Africa o dal Kenya che si allenavano con noi erano costretti a rimanere fuori dal campo durante le partite, una forma di apartheid moderno», ci spiega Carbone. «Sicuramente lo sport è attraversato da fenomeni diffusi di razzismo, e questo succede negli stadi di serie A, nei campi di provincia in cui non ci sono le telecamere a volte è anche peggio», continua.
Secondo l’ex giocatore, non serve andare nei grandi stadi per testimoniare la violenza tra i tifosi, per questo il modello della polisportiva vuole marcare la differenza anche all’interno dei campionati dilettantistici. Così, alla fine di ogni gara, il San Precario invita la squadra avversaria a celebrare il “Terzo Tempo”, chiedendo ai suoi giocatori di condividere un momento ricreativo sul campo, come succede dopo le partite di rugby.
“Terzo tempo” è anche il nome del pub che figura tra i pochi sponsor dell’”Ideale Bari”, nata nel 2012 sulle ceneri dello scandalo del calcio-scommesse per permettere ai tifosi ultras dell’AS Bari di creare la squadra che sognavano e seguirla in modo più libero, partecipato, e senza l’obbligo di sottoscrivere la tessera del tifoso, che rappresentava per molti soci un “limite alla libera circolazione” dei sostenitori del club, uno strumento di controllo e di affiliazione commerciale con la società. «Fondando una nuova squadra abbiamo deciso di buttare tutto via e di ripartire dal basso, eliminando tutte quelle problematiche che ci sono oggi nel calcio, come il disinteresse alle esigenze del tifoso, o i prezzi dei biglietti arrivati alle stelle, con il calcio che si gioca tutti i giorni e a tutti gli orari», afferma Federico, uno dei soci.
I mondiali in Qatar, secondo lui, sono l’approdo definitivo del calcio moderno e la cartolina della sua deriva: «Con stadi che sono vere e proprie cattedrali nel deserto e un calcio che è totalmente scollato dal tessuto sociale organizzato, in un Paese che non ha storia calcistica, il cui popolo non ha alcun tipo di sentimento per il calcio, a differenza di altri mondiali che nella storia sono stati organizzati in altri Stati e ancora ci ricordiamo».
Insieme ad altre 30 squadre di calcio popolare italiano, l’Ideale Bari ha aderito al manifesto di boicottaggio dei mondiali in Qatar: nei loro circoli non verranno proiettate le partite della Coppa del Mondo della Fifa. «I mondiali in Qatar sono l’apoteosi di ciò che il calcio non dovrebbe mai essere: un enorme business costruito con il sangue e lo sfruttamento degli ultimi e un palcoscenico di intrattenimento per pochi spettatori milionari», si legge nel manifesto intitolato “Un calcio (popolare) alla Fifa”. «Nonostante le politiche di facciata promosse negli ultimi anni per combattere disuguaglianze di genere, lavorative e razzismo negli stadi, la scelta di svolgere i mondiali in Qatar svela il vero volto del calcio business.
I diritti umani e civili vengono messi in secondo piano, dando carta bianca a un Paese che ha più volte violato i diritti fondamentali delle persone della comunità Lgbtq+ e dei migranti». Tra i punti del manifesto in polemica con la Fifa figura anche l’esclusione delle donne «dalla quasi totalità degli sport e degli eventi sportivi» e le politiche che ne osteggiano e impediscono la partecipazione.
Così, domenica 27 novembre, le tifose e i tifosi dell’Atletico San Lorenzo e della femminile “Borgata Gordiani”, dal nome di un quartiere che sorge nella periferia est della capitale, non seguiranno i match dei quattro gironi, Belgio-Marocco o Croazia-Canada, ma un torneo quadrangolare di calcio a cinque femminile, organizzato per ricordare Nicole Lelli, vittima di femminicidio, uccisa da suo marito nel 2015.