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“Scoprite il vostro sogno e lavorate per realizzarlo”: cosa mi ha insegnato Kobe Bryant

Kobe Bryant
Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Kobe Bryant: vi racconto chi era “Black Mamba”

Ricordo bene quel 22 luglio 2016, a Milano. Un normale pomeriggio a San Babila, di fronte ad un noto negozio di articoli sportivi. Una folla enorme radunata sotto il sole in pieno centro, tutti nell’attesa di vederlo, anche soltanto per un istante. Ragazzi e ragazze indossavano la sua canotta giallo-viola, la sua t-shirt o il suo cappellino facendo cori da palazzetto, “M-V-P, M-V-P”, mentre fotografi, giornalisti e cameramen erano pronti ad immortalarlo su quel piccolo palco allestito.

Poco prima una coppia di passanti al mio fianco aveva esclamato: “Cosa sta succedendo qui? Chi aspettate?”. E la risposta era venuta quasi spontanea, come se non ci fosse altra spiegazione che quella: “Sta arrivando Kobe”.

Kobe Bryant era tornato in Italia. Sì, perché Kobe in Italia era di casa. Da piccolo aveva seguito papà Joe, giocatore di basket, su e giù per la Penisola, da Rieti a Reggio Calabria, per proseguire a Pistoia e infine a Reggio Emilia, città evocate proprio ieri durante la tornata elettorale, mentre dall’altra parte dell’Oceano arrivavano notizie nefaste.

Aveva persino provato a giocare a calcio qui da bambino, ma era uno sport dove non eccelleva, qualcuno ricorda che giocava sempre come portiere, in quanto poco dotato nel gioco ma altissimo già a quell’età. Ma lui a fare la comparsa non ci stava, e con il senno di poi è stata la scelta giusta. Usava parlare spesso in italiano, sia sul campo, come testimonia un video in panchina con Sasha Vujačić, sia nella vita pubblica e privata, come al momento della consegna dell’Oscar nel 2018 per il suo cortometraggio Dear Basketball.

Diceva sempre che in Italia era cominciato il suo sogno, quello di diventare un giocatore di pallacanestro, qui aveva mosso i suoi primi passi con la palla a spicchi, qui era dove aveva imparato i fondamentali, quelle sue movenze che sarebbero diventate iconiche molti anni dopo.

Non era dunque la sua prima volta nel nostro paese, ma quella del 2016 era una data speciale. Qualche mese prima si era infatti ritirato dal basket giocato e l’aveva fatto alla sua maniera, con il #MambaOut, un congedo spettacolare all’altezza di 20 anni di onorata carriera (Obama replicherà il gesto del micdrop nell’ultimo discorso con i giornalisti corrispondenti dalla Casa Bianca), 20 anni di record e successi dove ogni arena NBA lo aveva omaggiato per la sua carriera, per la sua grandezza. Si chiudeva un capitolo importante per il Black Mamba, come lo chiamavano tutti, soprannome che aveva scelto lui stesso ispirandosi al film Kill Bill di Quentin Tarantino.

In quella giornata si era presentato davanti al suo pubblico sorridente, con la sua classica smorfia in viso, in maglietta e pantaloncini, e parlando in italiano con il giornalista sportivo Flavio Tranquillo aveva già chiaro cosa avesse in mente per il suo futuro: “Il futuro per me è insegnare la vita attraverso la pallacanestro. Scuole, camps, libri, film, animazioni… Insegnare con le storie”. Era questo l’obiettivo che si era posto: insegnare alle nuove generazioni la passione per il suo sport.

In quell’incontro Kobe aveva mostrato un lato quasi del tutto nuovo rispetto al passato, il suo lato umano, descrivendo non solo il suo agonismo, ma anche la sua mentalità fuori dal campo, la sua resilienza di fronte alle difficoltà, il superamento delle proprie paure.

“Ho imparato a superare le paure durante un camp a Pistoia quando ero piccolo. Avevo giocato male, ero nervoso e proprio lì, pensandoci e ripensandoci, ho superato queste difficoltà. La cosa importante per la pallacanestro è ripartire dai giovani e insegnare loro l’attenzione ai dettagli per farli crescere con la giusta mentalità”. E ci aveva lasciato con questa frase, una sorta di testamento ripensandoci adesso: “Lavorate ogni giorno come fosse il vostro ultimo giorno. Trovare la cosa che amate di più, la vostra passione, e impegnatevi al massimo per realizzare tutti i vostri sogni”.

Sono queste frasi che mi son tornate subito nella mente ieri sera, apprendendo la notizia della sua prematura scomparsa. Kobe non c’è più. Travolto dalla sua stessa passione, mentre accompagnava sua figlia Gianna, 13 anni, ad allenarsi sul campo, vittima anche lei su quel maledetto elicottero che si è schiantato a Los Angeles questa notte.

Kobe Bryant non era semplicemente una leggenda del basket o dello sport, era uno di quei pochi sportivi capaci di trascendere la propria dimensione di atleta per farsi icona culturale del proprio tempo. La sua ultima apparizione, sui social, era arrivata non più di tre giorni fa, quando un altro campione come LeBron James aveva infranto il suo record di punti (fino a quel momento terzo marcatore nella storia NBA),e Bryant si era congratulato, da sportivo e da amico, postando una foto su Instagram che li ritraeva insieme mentre scherzavano (“Continua ad andare avanti, ho il massimo rispetto per te fratello” aveva scritto sul post).

È difficile riuscire a scrivere cosa ha rappresentato e rappresenta ancora oggi la sua figura per quelli come me e della mia generazione. Vederlo in campo per tutti questi anni l’aveva reso ai miei occhi come una persona di famiglia. Al punto tale che ieri sera son rimasto impietrito con il cellulare in mano, senza saper come rispondere di fronte ai messaggi che mi stavano scrivendo amici e colleghi in quel momento. Era diventato una figura paterna, con la quale tutti noi empatizzavamo inconsciamente, e pur non conoscendolo di persona, lo consideravamo un simbolo di integrità, determinazione, un uomo autentico e autorevole allo stesso tempo.

Ieri notte gli stessi addetti ai lavori, l’NBA, i giocatori, e gli allenatori del basket a stelle e strisce non sapevano cosa dire. Inevitabilmente tutto il mondo sportivo è sotto shock: ci son state poche dichiarazioni nell’immediato, traspare solo una profonda tristezza, solo lacrime per questa terribile perdita. Questa notte le partite si son giocate comunque; qualcuno, come Kyrie Irving, grande amico di Kobe, non se l’è sentita di scendere in campo. In America “the show must go on” sempre e comunque, ma l’NBA è sembrata un circo triste, che doveva ancora elaborare il lutto, come tutti noi. Tornano alla mente tutte le sue incredibili gesta, i 5 titoli vinti con i Los Angeles Lakers, l’unica squadra a cui è stato legato, i due ori alle Olimpiadi con Team Usa, la prestazione da 81 punti contro i Toronto Raptors, i 61 contro Utah alla sua ultima partita, Shaq&Kobe, Kobe&Gasol, la Merion High School, il suo numero 8 e il 24, la rivalità e amicizia che lo legava all’altro grande campione, quel Michael Jordan che aveva idealizzato e di cui aveva tentato, riuscendoci, di ripercorrere le orme, in tutto e per tutto.

Tutto quello che lo circonda era leggenda prima e resterà leggenda dopo. Quello che ci lascia più di tutto però è la sua passione, il suo rincorrere i sogni fin da bambino, il suo essere fonte d’ispirazione non solo per gli atleti come lui, ma per tutti i ragazzi che coltivano un sogno. Kobe è e rimarrà un mito, per sempre. Per chi lo ha visto dal vivo qualche anno fa, per chi lo ha visto per anni in tv, per quelli che lo vedranno adesso e quelli che ne imiteranno le sue gesta in futuro. Kobe resterà un campione, un esempio da seguire, una leggenda per tutti noi.

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