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Da promessa della ginnastica a campionessa di nuoto paralimpico: intervista a Giulia Ghiretti

Immagine di copertina
Photografem Productions

A 16 anni era nella Nazionale di ginnastica. Poi un incidente l’ha costretta sulla sedia a rotelle. Oggi nel nuoto paralimpico è fra le migliori del mondo. “Si può esser felici anche se la vita ti mette i bastoni fra le ruote”

Una chiacchierata con Giulia Ghiretti vale più di cento corsi motivazionali. La sua teoria è semplice: «Spesso una risata di fronte all’ostacolo è il modo migliore per superarlo». Ma la lezione che c’è nascosta dietro è molto profonda: «La felicità è una condizione che prescinde dagli eventi esterni. Se anche la vita ti mette i bastoni fra le ruote, non è detto che tu non debba essere felice. La serenità è dentro, si costruisce giorno dopo giorno. E si basa soprattutto sulla consapevolezza».

Ghiretti, 29 anni, parmigiana, un carattere d’acciaio e un sorriso che conquista, è una delle migliori nuotatrici paralimpiche del mondo: ha vinto decine di medaglie – tra cui due argenti e un bronzo ai Giochi paralimpici di Rio de Janeiro (2016) e Tokyo (2021) – e detiene il record mondiale nei 50 metri farfalla in vasca corta.

Eppure il suo primo amore sportivo è stata la ginnastica. Da bambina e ragazzina era nella Nazionale italiana di trampolino elastico, ma una brutta caduta in allenamento a 16 anni le ha cambiato per sempre la vita, causandole la paralisi delle gambe. È stato durante la riabilitazione post-operatoria che ha scoperto la passione per il nuoto.

Ora Ghiretti, che intanto punta alla laurea in Ingegneria biomedica, ha deciso di raccontare la sua storia in un libro, scritto a quattro a mani con il bravo giornalista Andrea Del Bue: si intitola “Sono sempre io” (Edizioni Piemme, con postfazione firmata Paolo Barilla, vicepresidente dell’omonima multinazionale della pasta).

Ghiretti, qual è l’ultima medaglia che ha messo al collo?
(Sorride imbarazzata). «Veramente sono quattro, vinte ai Mondiali del 2022 a Funchal, in Portogallo: oro nei 100 rana, argento nei 200 misti, argento nella staffetta mista 4×50 stile, bronzo nella mista 4×50 mista». 

E la prossima quale sarà?
«Dal 31 luglio al 6 agosto ci sono i Mondiali a Manchester, dove saranno anche assegnati i posti alle nazionali per i Giochi di Parigi 2024».

Come atleta paralimpica, percepisce un trattamento diverso rispetto agli atleti normodotati?
«Oh sì! Sicuramente, rispetto a qualche anno fa, oggi sui media c’è molta più attenzione per lo sport paralimpico, ma non c’è ancora paragone con lo spazio che viene riservato allo sport per normodotati. Una notizia positiva però è che dal 2022, per legge, almeno nei gruppi sportivi militari siamo equiparati in termini di stipendio».

Perché ha deciso di scrivere un libro sulla sua vita?
«Me lo ha proposto Andrea. Inizialmente ero titubante: “Chi sono io per fare un libro?”, mi chiedevo. Poi mi sono convinta».

Ha capito che la sua è una storia che meritava di essere raccontata.
«Sì, ma non tanto per me, quanto per il fatto che magari può essere uno spunto, un aiuto per gli altri. Qualche giorno fa ne ho avuto una piccola conferma: una ragazza mi ha scritto e mi ha detto “Ho letto il libro, ti fa piangere, ti fa ridere, ma soprattutto ti fa riflettere su cose che hai sempre voluto fare e non hai fatto, su paure che ti sei sempre posta inconsciamente”. Ecco, se il libro può servire a questo, allora significa che ho fatto bene a farlo».

È stato doloroso ricordare l’incidente?
«No, per niente. Anzi, a me piace: ogni volta scopro cose diverse che gli altri hanno vissuto. Io so quello che è successo a me, perché non ho mai perso conoscenza, ma non avevo mai saputo come i miei cari lo hanno saputo, dove erano, come hanno reagito. Quello che è successo è successo, non tornerei indietro, l’incidente fa parte della mia vita».

Le capita di ripensarci spesso?
«No, anzi non ci penso praticamente mai».

Quando era in ospedale, dopo un intervento durato sette ore, chiese a sua madre se sarebbe mai tornata a saltare sul trampolino. E lei: “No, Giuli, non tornerai a saltare. E nemmeno a camminare”. Per sua madre non dev’essere stato facile, in quel momento, essere così brutalmente sincera. Lo ha apprezzato?
«Certo. Ha fatto benissimo!».

Poi, col passare delle settimane e dei mesi, circondata dall’affetto di parenti, amici, personale sanitario, ha ritrovato il buon umore.
«È stato fondamentale non essere mai stata da sola. Avere sempre qualcuno che ti lega alla quotidianità. Di quel periodo non ho ricordi tristi. È stato difficile, sì, ma insomma quando ci penso non c’è “il buio”».

La sua filosofia di vita è: «Una risata di fronte all’ostacolo è il modo migliore per superarlo». È sempre stata così positiva o lo è diventata col tempo?
«Penso di essere stata sempre così. Forse conta anche il fatto che quando mi sono fatta male avevo 16 anni: un’età particolare, in cui si cresce».

Non tutti però hanno un carattere così forte. Di fronte  a esperienze come la sua, c’è anche chi non riesce a reagire bene come lei.
«Non è facile, sicuramente è una cosa che ti cambia la vita. Però a 16 anni cosa fai, ti chiudi in casa? No! Puoi fare tante cose, sicuramente le farai in un modo diverso, ma le potrai fare. E farai tante cose che prima non avresti mai immaginato di fare. Il messaggio è: non guardare indietro, ma a quello che ci sarà dopo. E circondati di persone care: quello fa la differenza. Ma anche loro, d’altra parte, ti devono spronare a trovare una soluzione per continuare a fare le cose che facevi prima».

Durante la riabilitazione in piscina, quasi per caso, ha deciso che il suo nuovo sport sarebbe stato il nuoto.
«L’ho deciso perché stavo bene in acqua, perché il nuoto è libertà. Non hai la sedia».

Non è da tutti passare dalla Nazionale di uno sport, il trampolino elastico, a quella di un altro, completamente diverso, il nuoto paralimpico. Significa che lei ha lo sport nel sangue.
«Come era parte della mia quotidianità prima dell’incidente, lo sport lo è stato dopo e lo è oggi».

Quando ha iniziato a dare le prime bracciate, si aspettava di diventare una campionessa mondiale?
«Assolutamente no! Ho iniziato con l’idea di fare delle gare, ma quali gare di preciso non lo sapevo. Poi è ovvio che l’obiettivo è sempre migliorarsi. Si punta sempre più in alto».

Il momento più bello della sua carriera?
«Non lo so. Le gare più belle saprei indicarle, ma il momento top non saprei. Forse le mie prime Olimpiadi, quelle di Rio. Ma non tanto quando ho vinto la prima medaglia, quanto il momento in cui sono entrata nello stadio per la cerimonia d’apertura. Emozionante, davvero. Sono cose vivi lì, e basta».

Era più forte come ginnasta o la è ora come nuotatrice?
«Come nuotatrice, senza ombra di dubbio. Le Olimpiadi non sarei mai arrivata a farle».

Cosa vuole fare quando smetterà di gareggiare?
«Non lo so, non ci ho ancora pensato. Ora penso a finire l’università».

Lei dice: «La felicità è una condizione che prescinde dagli eventi esterni». Cioè?
«Credo che la felicità sia una cosa molto personale. Non c’è una ricetta per raggiungerla. Dipende solo da te essere o meno felice».

E lei, oggi, si sente una persona felice?
(Sorriso largo). «Sì!».

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