Abusi nella ginnastica, la confessione di un’allenatrice: “Ho sbagliato, alla fine della mia carriera non avevo autostima”

Irene Castelli, atleta azzurra della ginnastica artistica ai Giochi di Sidney 2000, è la prima delle allenatrici ad ammettere pubblicamente gli abusi e le vessazioni sulle giovani sportive.
“Ho sbagliato sapendo di sbagliare – ha spiegato – ho sbagliato perché alla fine della mia carriera di atleta avevo l’autostima sotto i piedi ed ero traumatizzata nel corpo e nella mente. Così, quando ho iniziato ad allenare, ero troppo aggressiva (ma mai violenta) con le allieve perché mancavo di empatia”.
“Se non ho fatto loro del male – ha aggiunto – è solo perché ho realizzato la situazione e ho trovato una psicologa che mi ha guarito. Ora tutto è cambiato grazie al lavoro che ho fatto su me stessa. Alle colleghe dico: cercate aiuto all’esterno, accettatelo perché il rischio di provocare traumi e dolore nelle vostre bambine è forte”.
All’incontro in cui ieri a Roma l’associazione “Change The Game”, coordinata da Daniela Simonetti, ha presentato le quasi 200 denunce e segnalazioni provenienti dal mondo della ginnastica e ricevute dai legali del team, Castelli ha parlato anche di quanto a sua volta ha dovuto subire lei.
“Mandata in pedana sotto antidolorifici anche quando stavo male — ha raccontato —per non sottrarre tempo agli allenamenti dovevo scegliere se pranzare o andare dal fisioterapista. Le Olimpiadi non sono state un traguardo ma un incubo”.
Un secondo coach ha portato un’altra testimonianza: “Una mia atleta promettente ma esuberante veniva umiliata davanti a tutti dal capo allenatore che la costringeva a decine di trazioni punitive alla fune. Un giorno lei, per la vergogna e lo sfinimento, si fece la pipì addosso: lui si trattenne dal darle uno schiaffo dicendo che le faceva schifo”.
Sul fronte disciplinare si attendono i provvedimenti della Federazione, mentre dal punto di vista penale sono state avanzate ipotesi di reato come quello previsto dall’articolo 572 del Codice Penale, i “maltrattamenti nei confronti di persona di famiglia in affido per ragioni di educazione, istruzione, cura o esercizio di una professione o di un’arte”.