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“Sembrava un film. Ma era tutto vero”: il trionfo degli Azzurri visto da Antonio Di Gennaro

Immagine di copertina
Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Antonio Di Gennaro è l’ex centrocampista che ha commentato la cavalcata della Nazionale all’Europeo insieme ad Alberto Rimedio prima che il telecronista risultasse positivo al Covid. Dopo aver assistito gol dopo gol alla “rinascita” degli Azzurri di Roberto Mancini, dai primi ritiri a Coverciano fino a Wembley, la finale contro l’Inghilterra ha dovuto guardarla in casa, a Bari, la città in cui vive e in cui ha osservato la quarantena obbligatoria.

Il Bari è anche la squadra dove ha giocato tra l’88 e l’89 dopo otto anni al Verona, con cui ha vinto lo scudetto nella stagione 84-85. In quell’anno l’Hellas dominò il campionato di Serie A. Mentre osservava l’Italia allenarsi, stare insieme fuori dal campo, giocare le amichevoli, le qualificazioni e le partite del torneo della Uefa, si è ricordato di quella stagione, in cui a fare la differenza nel Verona fu lo spirito di squadra e la determinazione nel raggiungere un obiettivo. “L’umiltà di sapere da dove si era partiti e l’ambizione di fare qualcosa di importante”, racconta a TPI.

Perché l’unità e lo spirito di squadra, di cui tanto si è detto per questa Nazionale, sono così importanti? In che modo fanno la differenza?

Nei momenti di sofferenza, uno fa la corsa anche per il compagno che è in difficoltà, riesce a diventare anche lui leader. Succede perché anche fuori dal campo c’è questo spirito, nonostante sia una rosa di 25 giocatori. Si rendono conto che è con questo spirito che possono fare qualcosa di importante. La convinzione te la dà la mentalità dell’allenatore e tutto lo staff. La Nazionale non si allena tutti i giorni, ma quando si ritrova per quei 10 o 12 giorni è come se fossero insieme da una anno.

Si aspettava questa vittoria?

Sì, ne ero sempre stato convinto.

Qual è stato il momento in cui ha capito che potevano farcela?

Dalla partita con la Repubblica Cieca, l’ultima amichevole, ma già osservando tutto il percorso. Succede quando si creano queste basi di una squadra con grande spinta e coesione e forte a livello tecnico. Non c’è una stella che possa brillare ma tutti i giocatori sono di qualità. Ero convintissimo che facessero bene e vincessero. Siamo arrivati a soffrire però la squadra ha sempre giocato a pallone ed è cambiata la nostra mentalità di calcio. Mancini è riuscito a creare un calcio diverso. Sapevano che volevano arrivare fino in fondo, erano un gruppo troppo unito.

Quanto ci ha messo Mancini a creare la squadra, a imprimere il nuovo corso e compattarla?

Inizialmente ha dovuto ricreare un certo entusiasmo perché venivamo da questa catastrofe sportiva della mancata qualificazione ai mondiali di Russia 2018. Ha dovuto ricreare convinzione nei calciatori e trasmettere loro questo modo di interpretare il calcio in maniera diversa, e cioè cercare il dominio del gioco, stare sempre nella metà campo avversaria. Quando convocò Zaniolo che non aveva ancora esordito in serie A noi addetti ai lavori eravamo perplessi. Ma era il messaggio che voleva dare, anche alle società: che i giovani se son bravi bisogna farli giocare. Questo ha fatto crescere il movimento, i calciatori stessi e tutta la squadra. Così in alcune partite anche se mancava il titolare è come se giocassero gli stessi perché il prodotto non è mai cambiato, la squadra ha sempre dimostrato questa grande capacità di vincere e convincere.

È tutto vero quindi? I racconti dei ritiri, della sintonia, della voglia di stare insieme?

Sì. Era una squadra che si divertiva e andava a 2mila. Come hanno raccontato Bonucci e altri calciatori, nei ritiri come quello in Sardegna organizzato con le famiglie volevano stare insieme tra loro anche dopo 55 giorni, non volevamo andar via. Questa è stata la grande forza insieme a quella dello staff con tutti gli ex compagni di Mancini, di cui la ciliegina sulla torta è stato Gianluca Vialli, che Mancini in un momento critico della sua vita ha portato in Nazionale. È stata la cosa più toccante e più di qualità, perché Vialli è stato un grandissimo calciatore, io ci ho giocato in Nazionale. Per la persona che è stata non poteva che essere di grande aiuto a lui e a tutti giocatori. Queste sono le scelte che ti fanno cambiare certe situazioni.

C’è un giocatore in particolare che l’ha stupita?

Sono tutti giocatori forti: Jorginho ha vinto in Europa, ha vinto in Italia, Bonucci e Chiellini, Insigne che come ha giocato in Nazionale non giocava da nessuna parte, a Napoli sì ma difficilmente lo abbiamo così. Lo stesso Verratti che tre anni fa nelle interviste dopo la convocazione titubava, è un talento del nostro calcio. Tutti, Mancini ha valorizzato tutti. Ma i nuovi, Pessina e Locatelli, sono state delle rivelazioni. Si sapeva che sono forti ma hanno trovato un contesto che li ha portati a esprimersi bene, perché quando giochi con giocatori bravi vicino ti viene più facile, quando ti diverti e sai quello che devi fare viene fuori il talento. Locatelli e Pessina se si fosse giocato un anno fa non sarebbero stati nemmeno della comitiva, ma hanno sfruttato questo periodo e si sono fatti trovare pronti. Sono stati delle rivelazioni per come si sono inseriti.

Tra l’altro nelle prime due partite Locatelli ha giocato perché Verratti era infortunato. 

Ma già dalla Nations League fece un partitone in una squadra che era nuova. Queste cose non si sono viste adesso, ma l’Italia era già una squadra abituata a giocare in quel modo, chi entrava a sostituire un altro non aveva problemi. Certo l’Europeo è una manifestazione in cui ci vogliono la personalità e la capacità di essere decisivo, ma è difficile trovare uno che non lo abbia fatto. Per esempio Chiesa rispetto a tre mesi prima ha fatto un salto di qualità unico nella Nazionale, prima non era così decisivo. Mancini ha fatto un capolavoro. Ha preparato la squadra in maniera esemplare e con una serenità che i giocatori hanno avvertito, dicendo loro: siete padroni del vostro destino, andate in campo a divertirvi. E così è stato. Soffrendo e con una dose di fortuna, ma questo fa parte del mestiere e del calcio stesso.

Quali sono gli episodi a cui ha assistito fuori dal campo che l’hanno colpita?

Dopo il Covid non abbiamo più potuto seguire da vicino gli allenamenti, prima del Covid mi ricordo che nell’allenamento antecedente la partita vedevo una squadra che si divertiva e andava a 2mila, e quando vai a 2mila vuol dire che dentro hai voglia di far vedere. Era un po’ come il mio Verona, quando vincemmo lo scudetto avevamo queste  prerogative addosso: l’umiltà di sapere dove si era partiti e l’ambizione di fare qualcosa di importante.

Come la Samp di Mancini e Vialli?

Sì, loro avevano una società più importante con Paolo Mantovani infatti arrivarono fino a Wembley quando persero la Coppa dei Campioni al 118esimo nel 92. Quell’abbraccio di Vialli e Mancini è stato emblematico un po’ perché raffigurava il fatto che anche Gianluca nonostante la malattia ha potuto dare il suo contributo e poi perché Mancini ha fatto quel capolavoro ricordando anche quando 30 anni fa persero la coppa. Sembra la sceneggiatura perfetta di un film.

Infatti ogni tanto si fa fatica a crederci. 

Invece è successo davvero. Ed il film ha anche un lieto fine. Abbiamo vinto contro gli inglesi in casa loro. Poi si è visto dopo la partita che non è stato molto british da parte dei reali andare via senza aspettare la premiazione. Non è da loro, rosicare va bene ma hanno perso anche in quello, in quello forse più che sul campo. Si vede che il Covid ha cambiato anche loro.

O la Brexit.

Può darsi.

Il gol che le resterà impresso? 

Il primo gol di Locatelli con la Svizzera, l’ho detto anche nel commento del gol in telecronaca (“Locatelli arriva da grande centravanti e fa un gol bellissimo”, il commento di Di Gennaro durante la diretta, ndr): fa un’apertura di prima di sinistro a Berardi, che fa 60 metri e mette la palla dentro, poi conclude Locatelli. Inizia l’azione con questo cambio di gioco di sinistro e poi va a concludere il gol. È stato uno dei più belli come preparazione e conclusione. La bellezza del cambio di gioco sinistro: qui torna il discorso di Locatelli, un esempio di crescita che è stata esponenziale. Locatelli ha tirato fuori qualcosa in più che lui già aveva.

 

 

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