“Dal Qatar a Putin fino alla nuova Juventopoli, vi spiego cosa sta cambiando nel calcio”
Intervista al giornalista Marco Bellinazzo, autore di "Le nuove guerre del calcio"
Marco Bellinazzo, giornalista del Sole 24 Ore, è da anni uno dei più importanti studiosi delle nuove frontiere del calcio. Uno sport che racchiude in sé molti altri elementi, muovendo interessi economici spaventosi e trasformandosi, così, in un attore geo-politico di primo piano, in grado di determinare equilibri che vanno ben al di là del campo di gioco.
In questa chiacchierata con TPI ci spiega il significato profondo del suo ultimo saggio di denuncia, “Le nuove guerre del calcio” (Feltrinelli).
«È sempre più uno strumento finalizzato all’affermazione di interessi che con lo sport hanno poco a che vedere, per lo meno con una certa idea di sport e di calcio. È un’evoluzione naturale e, in un certo senso, anche positiva, ma negli ultimi dieci-quindici anni il processo che ha portato ad affermare la necessità di rendere il calcio economicamente sostenibile si è deteriorato. La recessione che, per la prima volta, ha colpito il calcio europeo in seguito alla pandemia ha indebolito e reso ancora più vulnerabile questo mondo. Oggi noi vediamo la presenza sempre più massiccia di governi, fondi d’investimento e fondi che fanno riferimento ad autocrazie, se non a vere e proprie dittature, che acquistano club o pezzi di leghe professionistiche».
«Certo, ma nel mio libro ho compiuto una ricostruzione che parte da prima. Il calcio è sempre stato utilizzato dalle dittature ai fini della propaganda politica, ma nel 2003 è avvenuto il salto di qualità. Putin, infatti, stava erigendo il suo nuovo regime neo-zarista ma si trovava in difficoltà, anche per via delle atrocità che stavano emergendo a proposito della guerra in Cecenia. Al che ha capito che lo sport poteva essere uno strumento ideale per mitigare alcune asperità dal punto di vista dell’immagine, accreditare il suo regime e renderlo più simpatico in Occidente: adesso lo chiamiamo sportwashing. E così lo ha sfruttato a piene mani, inviando Roman Abramovič, un giovane oligarca che si era fatto strada nella sua corte, ad acquistare il Chelsea, un club londinese che all’epoca era sull’orlo del baratro. Non si limitò, tuttavia, a farglielo acquistare: volle che comprasse i migliori giocatori sul mercato per renderlo subito vincente e sovvertire le gerarchie continentali».
«Sì, perché il calcio è un passepartout molto più veloce di qualsiasi altra operazione diplomatica, aprendo immediatamente le porte, condizionando l’immagine di un certo paese e consentendo a chi lo sfrutta di presentarsi come un soggetto autorevole e credibile agli occhi dell’opinione pubblica. Non a caso, da quel momento in poi, tutta l’economia inglese è stata sempre più intrecciata con gli investimenti dei russi. Ormai, a proposito di Londra, si parla di Londongrad. Anche altri oligarchi russi hanno acquistato club in Gran Bretagna, trasformando il metodo Abramovič in un modello quasi scientifico, molto cinico, per piegare il calcio a interessi che non sono né sportivi né economici, viste le notevoli perdite, ma per l’appunto di immagine, dunque geo-politici».
«Non c’è dubbio. Gli americani, negli ultimi due anni, non hanno acquistato solo club inglesi ma più di sessanta società di calcio in giro per l’Europa».
«Lì si tratta, più che altro, di imprese di beneficio finanziario. Quei club, infatti, sono stati acquistati con alcune centinaia di milioni di euro (lo United addirittura a debito, rimborsando il debito accumulato con i ricavi della stessa società e suscitando per questo molte proteste ad opera dei tifosi dei Red Devils) mentre oggi hanno quotazioni straordinarie, che variano dai 4-5 miliardi del Liverpool ai 7-8 dello United. Si cercano, pertanto, o acquirenti o soci che vogliano investire nel club, permettendo all’attuale proprietà di valorizzare il proprio investimento».
«Noi viviamo in un ordine calcistico globale completamente mutato, ed è mutato dal 2015, quando gli Stati Uniti, rimasti vittime del mercimonio che è stato compiuto a proposito dei Mondiali del 2018 e del 2022, aggiudicati al Qatar proprio ai loro danni, hanno avviato una campagna molto determinata per sovvertire il sistema di Blatter, che vedeva nel comitato esecutivo un potere assoluto nell’ambito della FIFA. Con l’indagine dell’FBI nel 2015, quel potere è stato, di fatto, cancellato e il ruolo determinante nella FIFA oggi è in capo all’assemblea dei duecentoundici paesi che la compongono».
«Esattamente, perché molte nazioni non riconosciute ambiscono ad avere spazio nell’ambito della FIFA prim’ancora di aspirare a un seggio alle Nazioni Unite, il che fa comprendere il prestigio di quest’assemblea. Del resto, veder riconosciuta la propria nazionale di calcio costituisce un acceleratore per ottenere, poi, il riconoscimento dello Stato».
«Cambierà molto perché, in funzione di questa trasformazione, noi abbiamo in Infantino il primo presidente del calcio globale che controlla, politicamente, la FIFA grazie ai voti di Africa, Asia e Nord America, con un ruolo sempre più marginale dell’Europa. E qui si spiega anche la grande guerra in atto con la UEFA, che detiene ancora il potere economico del calcio perché fattura il triplo della FIFA, e gli attacchi che sono arrivati alla UEFA stessa attraverso la Superlega e la proposta di un Mondiale biennale. Potrebbe verificarsi un’accentuazione di questi fenomeni. Non a caso, nel mio libro ho messo in copertina Putin, Infantino e bin Salman, dominus dell’Arabia Saudita che si è candidata ad ospitare i Mondiali del 2030, in opposizione alla candidatura europea di Spagna, Portogallo e Ucraina».
«Questi scenari ci portano a capire quanto sia profonda l’attrazione del calcio, e anche degli sport olimpici, perché un identico discorso vale per il CIO, nei confronti delle dittature. Bisogna essere consapevoli di questo e prendere le adeguate contromisure, al fine di salvare i nostri valori, che sono importanti e distintivi anche nel calcio, specie per quanto concerne la sua funzione nei rapporti all’interno delle nazioni e fra di esse».
«La Juventus farà la Juventus, nel senso che è una squadra centrale per il calcio italiano ed europeo. Oggi assistiamo a un cambiamento di governance, che è anche un cambiamento di filosofia, imposto da John Elkann e dal suo management. Pertanto, da un lato vedremo a cosa porterà il processo penale e quello sportivo rispetto al vecchio management, stabilendo se siano state commesse irregolarità, di che tipo e con quali eventuali sanzioni, mentre dall’altro la società dovrà ritrovare il suo equilibrio e avere, insieme a Inter e Milan, un ruolo di leadership nel calcio italiano per tentare di frenare il declino del nostro calcio rispetto a quanto sta avvenendo in Europa e nel mondo».
«Sicuramente, è uno scenario molto difficile ma immagino che, in occasione del centenario della famiglia Agnelli alla presidenza, l’obiettivo di Elkann sia quello di festeggiare la ricorrenza riportando serenità e facendo sì che il club torni a essere competitivo».