Tutti gli scandali della storia della Juventus
Lo scandalo plusvalenze è solo l'ultimo di una lunga serie di casi controversi che hanno segnato le vicende del club bianconero. Dal sistema Moggi al doping, dagli arbitraggi a quella Coppa insanguinata
Tutto ebbe inizio 125 anni fa su una panchina tra i palazzi in stile liberty di corso Re Umberto a Torino. Era un pomeriggio di fine ottobre – anno 1897 – e un gruppo di ragazzi, studenti del liceo Massimo D’Azeglio, figli della borghesia piemontese, decisero che avrebbero fondato una squadra di calcio. Per il nome da darle, scelsero di fare riferimento alla loro beata età e usarono il latino: è così che nacque la Juventus.
Quegli adolescenti appassionati non potevano immaginare, all’epoca, che la loro creatura primordiale sarebbe diventata il club più blasonato e vincente della storia del campionato italiano. Ma anche il più potente, e quindi il più detestato, ripetutamente accusato di irregolarità, talvolta addirittura condannato dai tribunali.
Se le origini della Juve appartengono a quel gruppo di liceali torinesi, la storia della società l’ha fatta la famiglia più ricca e influente d’Italia, gli Agnelli, che la acquistarono nel 1923 trasformandola in breve tempo in una squadra che nel secolo successivo, fino ai giorni nostri, ha macinato record su record, trascinata da campioni leggendari e da uno spirito agonistico assetato di trofei.
Una luminosa epopea ripetutamente sporcata, tuttavia, da diverse ombre: scandali fatti di arbitraggi sospetti, coppe insanguinate, farmaci vietati, schede telefoniche criptate, fino ai presunti illeciti finanziari di oggi, che hanno costretto il consiglio d’amministrazione a dimettersi in blocco, incluso il presidente Andrea Agnelli, per il quale la Procura di Torino chiede il processo.
«È come Calciopoli, solo che lì ci davano addosso tutti, mentre qui ce la siamo creata noi», confidava qualche mese fa il direttore finanziario Stefano Bertola (indagato) durante una cena – intercettata dai magistrati – con il direttore sportivo Federico Cherubini (non indagato).
“Calciopoli” è il nome con cui è passato alle cronache lo scandalo che nel 2006 travolse il mondo del pallone italiano e tramortì in particolare la Juventus, considerata il perno di «un sistema illecito di condizionamento» delle partite, al cui vertice stavano l’amministratore delegato Antonio Giraudo e il direttore generale Luciano Moggi, entrambi condannati, ma poi salvati all’ultimo dalla prescrizione, per frode sportiva e associazione a delinquere.
Attraverso una fitta rete di relazioni con dirigenti della Federcalcio e designatori arbitrali – ai quali aveva persino consegnato delle schede sim estere per mantenere riservate le conversazioni telefoniche – Moggi pilotava gli arbitraggi a seconda della propria convenienza, ma aveva anche il potere di orientare, nel bene o nel male, le carriere dei direttori di gara e dei calciatori, nonché i destini di alcune quadre.
La Giustizia sportiva punì la Juventus con la retrocessione in serie B (la prima della sua storia) e con la revoca dei due scudetti conquistati sul campo nelle stagioni 2004-05 e 2005-06 con fuoriclasse del calibro di Buffon, Cannavaro, Nedved, Del Piero, Trezeguet e Ibrahimovic: un dream team allenato dal “sergente di ferro” Fabio Capello.
Per certi tifosi della “Vecchia Signora” fu uno smacco, per altri si trattò di un sopruso, ma per praticamente tutto il resto dell’Italia calcistica quella vicenda fece finalmente giustizia dopo anni di ruberie. Perché o la si ama o la si odia: la Juventus è un sentimento estremo. Bianco o nero, appunto: come i colori sociali del club, che peraltro non furono il risultato di una scelta, ma capitarono per caso.
L’aneddoto merita di essere raccontato. Era il 1903 e i primissimi calciatori della Juve scendevano in campo indossando una camicia rosa con cravattino nero: tessuti di scarto di un magazzino di biancheria intima femminile. Col passare del tempo, però, le divise si erano scolorite: uno dei soci del club, l’inglese Tom Savage, si mise allora in contatto con alcuni amici oltremanica per farsi spedire uno stock di maglie del Nottingham Forest, di colore “rosso Garibaldi” in omaggio all’eroe dei due mondi.
Qualche settimana dopo arrivò a Torino il pacco richiesto: peccato che dentro non ci fossero le divise del Forest, ma quelle del Notts County, l’altra squadra di Nottingham, che vestiva a strisce verticali bianche e nere. Se non fosse stato per quell’errore, la squadra della «razza padrona» Agnelli avrebbe sfoggiato la tinta simbolo del movimento operaio: curioso, no?
Ma il manicheismo rappresentato – per caso – da quei due colori opposti, bianco e nero, ha caratterizzato tutta la storia della Juve, e persino la sua filosofia, ben riassunta dal celebre motto di un’icona del club come Giampiero Boniperti (prima attaccante, poi capitano e infine presidente): «Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta».
Per la Vecchia Signora è sempre stato così: non esistono mezze misure, arrivare secondi equivale a perdere, cioè a un fallimento. Ed è così che (tante) stagioni di dominio assoluto si sono alternate a periodi di depressione acuta. Così come (spesso) i successi sono stati accompagnati dalle polemiche.
L’elenco è lungo. Anno 1961, 16 aprile: si gioca Juventus-Inter, ma sugli spalti e intorno al campo ci sono troppi spettatori; l’arbitro sospende la partita per questioni di sicurezza. La Lega Calcio sanziona la Juve, padrona di casa, con la sconfitta a tavolino: l’Inter guadagna così 2 punti e la raggiunge in testa alla classifica.
Ma il presidente Agnelli – Umberto, che guida anche la Federcalcio – fa ricorso. E il 3 giugno, alla vigilia dell’ultima giornata di campionato, la Corte federale gli dà ragione: revoca la sconfitta a tavolino e ordina che Juve-Inter si rigiochi il 10 giugno.
Solo che quel giorno i bianconeri risulteranno già matematicamente campioni d’Italia. Finisce che l’Inter, per protesta, manda in campo i ragazzini della Primavera (tra cui un debuttante Sandro Mazzola) perdendo 9-1.
Passano vent’anni. È il 10 maggio 1981, terz’ultima di campionato: va in scena lo scontro diretto fra Juventus e Roma, con i bianconeri primi in classifica e i giallorossi secondi, a un solo punto di distacco.
Al minuto 72, sul punteggio di 0-0, il romanista Turone segna di testa, ma l’arbitro annulla per presunto fuorigioco: la partita finisce a reti inviolate, lo scudetto andrà a Torino, ma scoppia un polverone destinato a durare per decenni. Tanto che all’ultimo Festival del Cinema di Roma è stato presentato un documentario che ancora ne parla, con un titolo che non ha bisogno di spiegazioni: “Er gol de Turone era bono”.
L’anno successivo – stagione 1981-82 – è di nuovo bufera. Juventus e Fiorentina si presentano all’ultima di campionato, appaiate a pari punti prime in classifica. I bianconeri vincono 1-0 a Catanzaro, ma i calabresi protestano per un rigore negato, mentre a Cagliari la Fiorentina non va oltre lo 0-0 ma si infuria per un gol annullato a Ciccio Graziani. Lo scudetto va alla Juve e il regista Franco Zeffirelli, sangue caldo fiorentino, esplode di rabbia: «Meglio secondi che ladri!».
Sedici anni più tardi si ripropone il duello fra i bianconeri e l’Inter. È il 26 aprile 1998, mancano quattro giornate alla fine del campionato: il club degli Agnelli – il cui direttore generale è Moggi – guida la classifica con un solo punto di vantaggio sui nerazzurri.
Al Delle Alpi di Torino si gioca lo scontro diretto: la Juve passa in vantaggio con un gol di Del Piero, ma nel secondo tempo viene negato un clamoroso rigore agli ospiti per fallo di ostruzione di Iuliano su Ronaldo. L’allenatore dell’Inter, il solitamente pacato Gigi Simoni, grida: «Vergogna!». Ma rimedierà solo un’espulsione: lo scudetto è ancora una volta bianconero.
Pochi mesi più tardi irrompe nell’estate juventina lo scandalo doping. Il grande accusatore è il boemo Zdekenk Zeman, allenatore della Roma: uno che parla poco e sempre a bassa voce, ma quando lo fa – tra un tiro di sigaretta e l’altro – piazza coltellate.
Intervistato da L’Espresso, Zeman avanza sospetti sulle «esplosioni muscolari» di Vialli e Del Piero: «Da un po’ di tempo – attacca – in serie A è sempre più difficile resistere alla tentazione della pillolina magica».
Il procuratore capo di Torino, Raffaele Guariniello, apre un’inchiesta, che poi sfocia in un processo per frode sportiva contro Antonio Giraudo e Riccardo Agricola, rispettivamente amministratore delegato e medico sociale del club bianconero.
L’iter giudiziario si concluderà nove anni dopo: la Cassazione ritiene provata l’illecita somministrazione di farmaci ai calciatori della Juventus, eccetto che per la eritropoietina (Epo), ma il reato è ormai prescritto; la fedina penale di Giraudo e Agricola (assolti dalla Giustizia sportiva) resta così pulita.
Agricola resterà in società fino al 2009, per poi tornare, dal 2017 al 2020, come direttore del J Medical, il modernissimo centro medico da 10 milioni di euro, tra i simboli della rinascita bianconera dopo Calciopoli sotto la presidenza di Andrea Agnelli.
Una presidenza che può fregiarsi dei famosi nove scudetti consecutivi (oltreché di una manciata di altri trofei nazionali) ma su cui in questi giorni è stato sbrigativamente fatto calare il sipario per scampare alle ordinanze della magistratura che chiede di processare i vertici del club per reati come false comunicazioni sociali, ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, manipolazione del mercato e dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
La Procura di Torino ritiene che la società abbia alterato in modo irregolare i risultati finanziari di 2019, 2020 e 2021, una manovra che ha condizionato anche l’andamento del titolo Juventus in Borsa.
Nelle carte degli inquirenti si punta il dito in particolare su due condotte: da un lato, le presunte plusvalenze fittizie, basate cioè su una valutazione gonfiata di certi giocatori allo scopo di poter mettere a bilancio una cifra più alta; dall’altro, alcune mensilità di stipendio effettivamente pagate ai calciatori ma mai iscritte nei libri contabili.
Sull’onda dell’indagine torinese, anche la Uefa ha avviato accertamenti per sospette violazioni dei regolamenti sul fair play finanziario. Al netto delle vicende penali, sul piano sportivo la squadra rischia sanzioni che vanno dall’ammenda alla penalizzazione in classifica fino – ma è ancora un’ipotesi remota – alla retrocessione in serie B.
E potrebbe esserle negata anche la partecipazione alla Champions League, fonte vitale di ricavi per qualsiasi club di alto livello, nonché autentica ossessione per qualsiasi tifoso della Juve: la mitica coppa dalle grandi orecchie è stata agguantata appena due volte nella storia del club, che ha perso invece ben sette finali, di cui cinque negli ultimi venticinque anni.
Una delle due vinte, per giunta, risale a una serata maledetta: 29 maggio 1985, allo stadio Heysel di Bruxelles, prima del fischio d’inizio della finalissima Juventus-Liverpool, gli hooligans inglesi invasero il settore occupato dai tifosi italiani e nella calca morirono 39 persone.
Incredibilmente la Uefa decise che l’incontro andava disputato comunque: i bianconeri si imposero per 1-0 grazie a un calcio di rigore (peraltro inesistente, poiché il fallo era stato commesso fuori area) trasformato da Michel Platini. E piovvero critiche per l’esultanza sfrenata dei calciatori in campo, mentre sugli spalti ancora si contavano le vittime. Un altro episodio, certamente il più tragico, da ascrivere al capitolo dei trionfi contestati di casa Agnelli.
Ma, appunto, la filosofia Juventis è sempre stata quella del già citato Boniperti: «Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta». Sicché, pur di arrivare primi, si è disposti a tutto. Ma nel machiavellico tentativo di non cadere nella mediocrità del purgatorio si finisce alle volte per scadere nell’immoralità, quando non nella disonestà. E magari, anni dopo, quando si viene scoperti, si rischia di sprofondare dal bianco del paradiso direttamente al nero dell’inferno.
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