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Home » Sport

Gli oligarchi del pallone: tra miliardi e superleghe il divario tra i campionati europei di calcio è sempre più alto

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Banche, gas, emiri: il calcio che conta è ormai appannaggio di pochi, ma taglia fuori club e tifoserie blasonate. E a farne le spese è il gioco e la passione di chi ama questo sport

Fino agli anni Novanta, incontrare nelle competizioni europee una squadra ceca o rumena era considerato ostico anche per una vincitrice uscente del torneo. Oggi, vedere una squadra del gotha calcistico europeo sconfitta da queste squadre, rischierebbe di far scattare più d’una preoccupazione. In un tempo in cui multimiliardari e ipotesi di superleghe sembrano venire prima del pallone, il divario tra i diversi campionati europei, con un numero sempre più ristretto di leghe e di club a poter stare ai piani più alti del calcio, è stato uno degli effetti più lampanti.

Non è un caso che lo scorso anno si sia arrivati alla proposta di una superlega, un esclusivo torneo internazionale che prevedeva la partecipazione di una ristretta élite di squadre al di sopra di qualsiasi altra competizione. Uno schiaffo al gioco come l’abbiamo conosciuto da un lato, una presa d’atto di quanto il calcio che conta sia una faccenda per pochi club.

Vecchi piani

L’idea di creare una superlega era già nata negli anni Novanta, forse non per caso in un periodo in cui i videogiochi hanno visto una diffusione sempre più ampia, permettendo a giocatori di tutto il mondo di creare squadre e leghe ideali con campioni pescati dai diversi angoli del mondo. E forse anche per questo, dalla fine degli anni Novanta, l’Uefa ha iniziato una graduale revisione delle competizioni europee con l’obiettivo di renderle sempre più spettacolari, aumentando però progressivamente il divario tra i diversi campionati.

Se in Champions League all’inizio ci andavano solo le vincitrici dei campionati nazionali, in un secondo momento si dato spazio anche ad alcune delle seconde classificate fino ad arrivare al principio per cui ben quattro squadre dei principali campionati sono ammesse alla prestigiosa competizione. Per alcuni tornei storici ma meno in vista è invece necessario un turno preliminare anche per chi ha vinto lo scudetto. Questo affollamento nella massima competizione ha portato a rivedere la Coppa Uefa (oggi Europa League), basando la seconda parte del torneo sul ripescaggio dai gironi della Champions. C’era poi la Coppa delle Coppe, che con una squadra per Paese – la vincitrice della coppa nazionale – garantiva un equilibrio tra i campionati dei diversi Stati membri, ma nel processo di revisione venne abolita. La recente istituzione dell’ancora giovane Conference League ha provato a coinvolgere un maggior numero di club e nazioni, ma è una minuscola pezza di fronte a una questione più ampia.

Bocciati in geografia

Questi processi hanno portato negli anni a una geografia del calcio europeo sempre più ridotta a un numero ristretto di campionati e al ridimensionamento di storiche tradizioni calcistiche. Pensiamo al campionato olandese, che vanta ben tre squadre vincitrici della Coppa dei Campioni e che ha espresso uno dei più grandi club di sempre, l’Ajax, oggi finito in secondo piano, per non parlare di realtà come gli scozzesi del Celtic, i serbi della Stella Rossa o i rumeni della Steaua, tre squadre che nella loro storia hanno ottenuto il massimo trofeo europeo ma oggi disputano campionati marginalizzati.

Questo processo ha portato quindi i tornei finiti in secondo piano a studiare delle formule per provare a essere più accattivanti, in un calcio in cui la spettacolarizzazione dell’evento è sempre più centrale. Hanno così preso sempre più piede i play-off, opzione sul tavolo anche per l’Italia, oggi adottati stabilmente in Belgio e in Grecia e che possono risultare spaesanti per chi è abituato a seguire la tradizionale classifica a punti.

Ma la marginalizzazione di questi campionati non è solo un fattore di seguito mediatico. Non può passare inosservato come molti club storici negli ultimi anni siano stati relegati nelle serie minori per problemi finanziari. Pensiamo solo ai greci dell’Aek di Atene e ai loro connazionali dell’Iraklis di Salonicco, o agli scozzesi dei Rangers di Glasgow, costretti a ripartire dalla quarta categoria lasciando la Scozia senza il tradizionale derby contro il Celtic. Suona quasi miracoloso il loro ritorno in tempi brevi ai vertici del calcio della loro terra e addirittura l’approdo in finale di Europa League a 10 anni dal fallimento.

La necessità odierna sembra essere rendere più frequenti possibili gli scontri tra i più grandi campioni al mondo e tra i club in cui giocano, anche se si trovano in campionati diversi, non considerando la possibilità che il fascino di tali sfide potrebbe essere proprio nella loro aleatorietà temporale. Anche da questo presupposto era stata pensata non solo la superlega, ma anche la nuova formula delle coppe europee che entrerà in vigore dal 2024, in cui sarà superata la tradizionale fase a gironi in favore di una serie di scontri con sette squadre diverse in una sorta di girone unico con tutti i club della competizione.

Al fianco di una passione per uno sport spettacolare vissuto e promosso sempre più come un film hollywoodiano c’è la natura irrazionale del tifo, basata su elementi ancestrali che animano una massa di persone in tutto il mondo. Sono loro che rendono possibile sperare che un campione vada a giocare in una squadra di provincia, che la propria squadra di metà classifica faccia l’impresa, che un campo polveroso del proprio quartiere regali al mondo un nuovo fenomeno. Finché esisteranno i tifosi a sostenere non solo la propria squadra, ma questo sport, sarà possibile. E storie come quella del Leicester City, in Inghilterra, ci dimostrano che non abbiamo ragione di smettere di sperarlo.

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