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Home » Sport

Berrettini sorride, gli inglesi rifiutano la medaglia: perché il problema del calcio è culturale

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Domenica scorsa abbiamo assistito a due poli opposti dello sport. Alle 15:00 siamo stati tifosi, per lo più improvvisati, di una splendida finale di Wimbledon, che ha visto l’Italia conquistare il secondo posto grazie al venticinquenne Matteo Berrettini. Conquistare, sì, perché arrivare al piatto d’argento è stata per noi una grande soddisfazione, dato che oltre la rete si trovava quel fenomeno indiscusso di Novak Djokovic. Ci abbiamo sperato, abbiamo sognato il gradino più alto, ma è andata così e ne siamo comunque orgogliosi.

La sera, poi, come tutti sappiamo, si è tenuta a Wembley la finale degli Europei 2020 di calcio, che la nostra squadra ha portato a casa ai rigori battendo l’Inghilterra 4-3. Un polo opposto, come dicevo, non solo nell’approccio al gioco ma soprattutto alla sconfitta: il gesto dei calciatori inglesi di togliersi la medaglia dal collo, subito dopo averla ricevuta, è quanto di più distante ci possa essere da ciò che è accaduto nel pomeriggio. Ma andiamo con ordine.

Innanzitutto, è bene specificare che il loro non è un gesto isolato come qualcuno vorrebbe far credere. Accade spesso, nel calcio, che il secondo posto venga visto come un vero e proprio fallimento, e non come una semplice sconfitta. Una pratica totalmente irrispettosa e antisportiva, alla quale molti club (anche nostrani) ci hanno abituati da tempo.

Solo un paio di mesi fa, alcuni giocatori del Manchester City si sono sfilati la medaglia dopo aver perso la finale di Champions League contro il Chelsea; allo stesso modo il Manchester United, per la sconfitta col Villareal in finale d’Europa League; ma anche gli italianissimi, appunto, come i giocatori della Roma per la finale di Coppa Italia del 2013 con la Lazio, si sono lasciati andare a un simile sgarbo; o il patinato Cristiano Ronaldo che, alla Juventus, due anni fa si tolse l’argento dal collo dopo la sconfitta in Supercoppa italiana.

Mettendo da parte i calciatori, una menzione “d’onore” va ai tifosi dell’Inghilterra che domenica, dopo aver abbandonato le tribune ancor prima della premiazione, sentendosi umiliati, si sono dimostrati addirittura violenti fuori dallo stadio. Alla faccia del “bisogna saper perdere” e de “l’importante è divertirsi” che lo sport dovrebbe sempre trasmettere, spronando a vedere in chi arriva primo uno stimolo per migliorare e crescere, un esempio da rispettare. 

Non si può, appunto, dire questo di Matteo Berrettini, che dopo quattro ore di match si è portato davanti ai microfoni con uno dei suoi sorrisi migliori, ringraziando non solo la sua famiglia e il suo team, ma anche quello dell’avversario. Un momento di alta classe, di rispetto, di accoglienza della sconfitta ma soprattutto della vittoria altrui. Lo stesso sentimento al quale Djokovic dice di essere legato perché, se è arrivato al sesto Wimbledon vinto, è stato per merito dei colleghi Nadal e Federer, che lo hanno stracciato quando era giovane.

Ora, immaginatevi queste due esternazioni, di Berrettini e Djokovic, sigillate da un abbraccio con tanto di foto. Tutta un’altra musica, tutto un altro spettacolo rispetto a Wembley dove l’unico abbraccio è stato dato dagli Azzurri alla coppa. A tutto questo, poi, si aggiunge la modalità di festeggiare che ha creato non poco caos nel nostro Paese, riversando migliaia di persone nelle piazze, ammassate, in barba a qualunque attenzione anti-Covid. Per non parlare degli atti vandalici, anche pericolosi, compiuti per strada da nord a sud, senza distinzione di regione. Tutto, ovviamente, immortalato, da andarne fieri e farne ulteriore trofeo.

Anche questo non è un problema tutto italiano, ma culturale. Lo specchio di quella mascolinità tossica che si nasconde dietro al nome di “tifo” per sfogare gli aspetti peggiori della nostra società. Ed è proprio per questo che il calcio, in Italia, è quasi intoccabile: contraddireste mai un uomo? Beh, sicuramente molto meno di quanto fareste con una donna, che difficilmente si è vista nuda o fare qualunque altra cretinata allo stadio (come, sì, capita con gli uomini).

Perché se è vero che questo sport ha il merito di unire buona parte dei cittadini, è altrettanto vero che in esso sfoghiamo e riconosciamo il lato peggiore di noi, come il sessismo e il razzismo, ma anche la violenza. Il tutto, fomentato dallo spirito di gruppo, dall’essere insieme, dal dimostrarsi costantemente i capibranco della situazione, facendo passare come goliardata ciò che in realtà è pura manifestazione di potere.

E allora che cosa facciamo? Iniziamo a odiare definitivamente il calcio, accusandolo dei peggiori mali del mondo? Non credo sia una soluzione intelligente, puzza di classismo e discriminazione inversa. D’altra parte la differenza la fanno sempre le persone e i loro comportamenti, sono loro i diretti responsabili delle conseguenze che una partita qualunque provoca.

Certo, il clima rilassato e disteso, elitario, a tratti snob che si ritrova nel tennis, quella calma e il fair play dimostrato da Berrettini, sicuramente non la ritroviamo facilmente in curva a San Siro (ho citato uno stadio a caso, non mi linciate!). Ma possiamo, da qui, solo andare a migliorare: è sufficiente cambiare la cultura, combattere la supremazia dell’uomo sulla donna, scardinare le dinamiche di machismo in cui il migliore è chi la combina più grossa.

Non stiamo parlando di maleducazione, stiamo parlando di visione delle cose, della società, del mondo tutto. Di ruoli sbagliati e di convinzioni ingiuste, come quelle che portano a ridere se un uomo si spoglia allo stadio, e a dare della poco di buono a una ragazza che, festeggiando in piazza, si alza la maglietta per fare festa (e quegli stessi uomini, per quel gesto, si sentono in dovere di metterle le mani addosso, in un’ennesima manifestazione di potere, per giunta molesta).

Perciò sì, lo sport insegna, ma noi dobbiamo trovare la voglia di imparare, altrimenti non ci sarà medaglia che tenga: avremo perso, sempre e comunque, con ogni maglia indosso.

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