Addio Gianni Savio, il Cristoforo Colombo del ciclismo mondiale
Nella sua lunga carriera non ha mai conquistato un grande giro o una classica monumento. Eppure nessuno più di Gianni Savio, scomparso ieri a Torino all’età di 76 anni, è stato protagonista indiscusso sul sipario degli ultimi 40 anni del ciclismo italiano e internazionale. Con il suo eloquio caratterizzato da una erre che lo rendeva inconfondibilmente riconoscibile, il Principe, com’era noto nell’ambiente per la sua ricercatezza nel vestire, non ha avuto rivali nell’arte di fare le nozze con i fichi secchi. Ai grandi budget dei colossi delle due ruote lui rispondeva con prorompente creatività, tirando fuori, a getto continuo, dal suo magico cilindro non solo conigli ma anche rinoceronti e perfino qualche elefante.
Al Giro d’Italia era immancabile il suo passaggio in sala stampa intorno alle 19.00 quando si piazzava davanti alle postazioni dei due giornali torinesi, Tuttosport e La Stampa, in cerca d’una menzione, ripetendo il suo perenne mantra: “Anche oggi siamo stati protagonisti, anche oggi abbiamo animato la corsa.” A Beppe Conti, a Gianni Romeo e ai gemelli Viberti che lo sfottevano perché si beava d’un nono posto o della vittoria a qualche traguardo secondario, lui rispondeva snocciolando qualche improbabile statistica di quarto ordine secondo la quale la sua squadra aveva svolto un ruolo decisivo quel giorno in gara.
Frequentatore assiduo del Processo alla Tappa, Savio riusciva sempre a polarizzare l’attenzione dei telespettatori con battute a effetto che generavano dibattiti animati. Al Giro d’Italia del 2014, nell’insignificante frazione da Collecchio a Savona, scatenò una furiosa discussione su un episodio probabilmente esistito solo nella sua testa. La sua compagine si era rifiutata di collaborare con un tentativo di fuga, nato da una caduta, che avrebbe potuto mettere in crisi la maglia rosa, l’australiano Cadel Evans. Il Principe, con tono enfatico, sottolineo che “noi non siamo vassalli di nessuno bensì uomini liberi che forgiano il proprio destino”. Il messaggio, in realtà, sottintendeva il contrario ma questo, tutto sommato, passava in secondo piano di fronte alla solennità del suo contenuto.
Al di là dei molti episodi pittoreschi, Gianni è stato, e sempre rimarrà, l’uomo che ha messo l’America Latina sul mappamondo del ciclismo mondiale. Da Leonardo Sierra, primo conquistatore del Mortirolo nel 1990, a Egan Bernal, futuro vincitore di Tour e Giro da lui ceduto alla Ineos in cambio d’un ricco premio di valorizzazione, passando per Nelson Cacaito Rodriguez, grande protagonista nel 1994 sia al Giro che al Tour, e Jose Rujano, con il quale nel 2005 sfiorò una clamorosa vittoria nella corsa rosa, Savio ha lanciato sul proscenio internazionale una pletora di campioni che, con l’esclusione di Bernal, hanno dato il meglio solo sotto la sua guida burbera ma, al contempo, affettuosa. L’unico titolo mondiale sudamericano, l’iride a cronometro di Santiago Botero nel 2002 in Belgio, è stato conquistato da lui alla guida della nazionale colombiana.
Parimenti, non vanno dimenticati anche i campioni italiani che il manager torinese ha lanciato, o riciclato, verso carriere luminose. Senza tralasciare Andrea Tafi e Gianni Faresin, su tutti spicca Michele Scarponi da lui autenticamente rigenerato dopo il coinvolgimento nell’Operacion Puerto che gli era costata due anni di squalifica. Il trevigiano Andrea Vendrame, probabilmente per lui il più ostico da pronunciare, è stato l’ultimo campioncino che ha partorito.
Con Gianni Savio se ne va uno degli ultimi testimoni d’un epoca in cui il mondo delle due ruote aveva il suo epicentro in Italia. Lui, insieme a Bruno Reverberi, era stato l’unico capace di sopravvivere, nel ciclismo contemporaneo dei grandi team multinazionali, con le sue formazioni dalle mille pecette sulla maglietta che, con grande dignità tra mille difficoltà, si contrapponevano ai mega team sponsorizzati dai grandi colossi della finanza globale.