Da Dolce Vita a malavita: com’è cambiata l’Italia dai tempi di Vittorio Gassman
Da Dolce Vita a malavita: com’è cambiata l’Italia dai tempi di Vittorio Gassman
Ha scritto Masolino D’Amico (in “L’identità degli italiani”, Laterza, 1998) che l’espressione “dolce vita” era comparsa nel nostro paese già molto prima che Federico Fellini ed Ennio Flaiano la rilanciassero come titolo del loro celebre film (1960). Forse in origine traduceva la nota espressione francese “douceur de vivre”, usata da Talleyrand a proposito dell’Antico regime.
La sua enorme fortuna internazionale segue tuttavia la diffusione della pellicola, ed è legata all’immagine che l’Italia di allora, apparentemente ricca e godereccia, dava di sé nell’euforico inizio degli anni Sessanta; immagine peraltro largamente artefatta, come osserva giustamente lo stesso D’Amico. La Roma, più che descritta, vagheggiata da Fellini non era infatti mai esistita; o perlomeno, i suoi aristocratici non erano mai stati così eleganti, i suoi viziosi non erano mai stati così opulenti, le sue donne non erano mai state così affascinanti.
Ieri ho rivisto in tv (per la sesta o settima volta, non ricordo) un altro memorabile film dell’epoca, “Il sorpasso” di Dino Risi (1962). Il protagonista, un immenso Vittorio Gassman, è un italiano gaudente e spregiudicato. Ma in modo assai più plausibile che nella pellicola di Fellini, il suo carattere strafottente e ottimista viene continuamente contraddetto da un contesto decisamente modesto, ossia da una nazione popolata da personaggi dagli orizzonti limitati, contadini con le uova, piccoli borghesi, suorine; dei ricchi non viene taciuta la volgarità, e del resto il lusso che ostentano è piuttosto scadente.
Gassman, che viaggia su una vecchia Aurelia sport al cui parabrezza – per evitare contravvenzioni – ha attaccato un contrassegno della Camera dei deputati, non ha denaro in tasca e adocchia la giovane cameriera del ristorante. Insomma, “Il sorpasso” descrive l’Italia del boom economico come fu, e “La dolce vita” l’Italia come sognava di essere.
Ma veniamo al punto. È possibile attribuire agli italiani una particolare maestria nell’arte di godersi la vita? Vent’anni fa D’Amico non aveva dubbi: i nostri connazionali “mangiano bene, vestono bene, spendono molto per gli svaghi; […] importano più champagne e più cachemire, in proporzione, di qualunque altro popolo, e questo anche in periodi di crisi, quando gli altri, compresi i loro creditori, tirano la cinghia”.
Ma oggi, che il tempo delle vacche grasse è finito (in realtà, lo era già molto prima del Coronavirus), si ritrovano con servizi pubblici spesso scadenti e con milioni di giovani disoccupati o precari, molti dei quali sono costretti a lavorare in nero per sopravvivere; altri sono pronti perfino a entrare nella criminalità, organizzata o meno, allo scopo di procurarsi con la forza proprio quegli oggetti di cui abbiamo fama di essere intenditori insuperabili. Se questa è la dolce vita, si può mai invidiarla?
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