Cobra Kai, la serie sequel di Karate Kid è la migliore sorpresa di questo sventurato 2020
Cobra Kai, la serie sequel di Karate Kid
Non ne sono sicuro, ma probabilmente, da qualche parte nell’universo, vive un essere senziente che non sa nulla del maestro Miyagi e dei suoi bonsai, della tecnica della gru, di come si mette e si toglie la cera dal cofano di una cabriolet americana anni cinquanta, insomma un alieno che non ha mai visto Karate Kid, film culto anni ottanta che ha trasportato tutto il suo fascino nel tempo fino ai nostri giorni, continente dopo continente, pianeta dopo pianeta, sistema solare dopo sistema solare. Anche a lui, come a tutti voi, consiglierei spassionatamente di dare un’occhiata alle prime due stagioni di Cobra Kai, serie sequel prodotta nel 2018 ma uscita nel nostro paese in italiano lo scorso 28 agosto grazie alla piattaforma digitale Netflix.
Un lavoro ben riuscito, dove i due protagonisti, William Zabka e Ralph Macchio, riescono a dare nuova linfa ai ragazzini di un tempo, stravolgendo però i ruoli di eroe e antagonista, rimuovendo l’innocente e noiosa bonarietà nerd di Daniel LaRusso e regalando una luce diversa al disadattato perdente seriale Johnny Lawrence, uno degli adolescenti cattivi più odiosi della storia del cinema, quasi peggio di Richard Cameron, lo spione viscido che imperava dentro “L’attimo fuggente” di Peter Weir.
I dialoghi, volutamente scurrili, divergono dall’antica struttura teen cedendo di botto al lato oscuro della forza, un po’ come “Shameless” e “Community”, regalando alla sceneggiatura ritmo e gretto sarcasmo da strada. Insomma, il buon vecchio Johnny, pur ancora fisicamente prestante e piuttosto figo, si presenta al proscenio depresso e totalmente alcolizzato.
Divorziato e con un figlio che non vede mai, sopravvive grazie a lavori saltuari, ancora molto incazzato per il risultato delle finali regionali di karate del 1983, quando il paisà sfigato Daniel LaRusso, in equilibrio su una gamba con le braccia aperte a imitare un uccello marino, gli sferrò un calcione di interno collo al volto come se niente fosse, rovinandogli il resto della vita in un nanosecondo.
Daniel, al contrario, nel corso degli anni ha fatto carriera, diventando un imprenditore di successo. Vive assieme alla sua bella famiglia in una casa da sogno con annessa piscina e barbecue in pieno stile Happy Days-Mulino Bianco pre Banderas con annessa gallina. L’empatia che l’audience sviluppa con l’ex cattivone biondo è immediata, perché in qualche modo l’avvilimento permanente che contraddistingue lo sguardo da cane bastonato di Johnny intenerirebbe anche un negazionista in pausa pranzo durante una manifestazione di protesta contro i chip molecolari subatomici presenti nei vaccini di Bill Gates. Ma non ci interessa.
Dall’altra parte, invece, Karate Kid LaRusso si prodiga per riportare a casa la ghirba cercando di risolvere le crisi adolescenziali della bellissima figlia cheerleader e, per questo o per altro, talvolta chiede aiuto al vecchio maestro Miyiagi, che gli appare a volte come in un sogno ad occhi aperti, per redarguirlo, consigliarlo e mollargli un nippone filosofico come solo lui sapeva fare prima del rituale “Nam myoho renge kyo” serale.
In alcuni momenti i fan più accaniti di Pat Morita si commuoveranno fino alle lacrime, ma la sceneggiatura è dissacrante e divertente, i personaggi sono caratterizzati alla perfezione e riescono a raccontare una storia assolutamente credibile pur mantenendo intricata la fitta ragnatela degli intrighi.
La serie è prodotta interamente da Ralph Macchio e William Zabka, ma, nei crediti, fa capolino anche Will Smith, il cui figlio, Jaden, fu facente funzioni LaRusso, nello scandaloso remake del 2010 griffato Harald Zwart. Netflix ha già annunciato che ci sarà una terza stagione, e non potrebbe essere diversamente, anche perché “Cobra Kai” si candida a essere la migliore serie a sorpresa di questo sventurato 2020, e se qualcuno vi dice che quel dojo non esiste, che è una montatura del governo, voi non dategli retta e fate partire il Binge watching, ne vale la pena.