Il pollo alla piastra di Elisabetta Canalis: storia del pezzo fantasma del giornalismo italiano
C’è un leggendario e ponderoso articolo (se non siamo ai livelli di certe lenzuolate domenicali di Eugenio Scalfari, poco ci manca) che nella storia del giornalismo italiano non ha né padre né madre. Si sa che esiste (o meglio, che è esistito) perché è lì da vedere e ogni tanto riciccia sotto forma di pixel, tramandato attraverso miriadi di condivisioni sul web della stessa foto snaturata da un colpo di flash eccessivo nell’angolo in alto a sinistra. Ma è – incredibilmente – un parto senza genitori. Un miracoloso orfanello della comunicazione pop culinaria. Non ha in realtà apparentemente né un autore, né un editore. Nonostante abbia generato negli anni tonnellate di flames, diventando simbolo di un atavico perculamento mediatico senza soluzione di continuità.
Questo “pezzo” fantasma (poi vedremo perché) che è entrato nella storia del costume nostrano si intitola: “Pollo alla piastra di Elisabetta Canalis”. Seguono dettagliate istruzioni: “Prendete una fetta di pollo e mettetela su una piastra o su una padella ben calda. Quando il colore della carne diventa bianco, la pietanza è pronta”. Tutto qui, breve ma intenso.
Il livello della ricetta, come si può notare, è altissimo. In un combinato disposto che sta fra l’estrema semplicità della preparazione, che muove subito un moto di compassione, e il coinvolgimento del personaggio famoso a essa abbinato, che viene da allora dileggiato per avere fornito (si suppone) al giornale e ai lettori un contributo di così bruciante ovvietà. Della serie: “Amore, stasera ti faccio il pollo alla piastra”. “Ok, ma normale, oppure… alla Canalis?”. Segue ammiccamento con strizzatina d’occhio beffarda.
L’interessata nei confronti della spinosa questione vive da sempre fasi psicologiche alterne. A volte fa autoironia (“Petto di pollo alla piastra. Sono famosa per questa ricetta”, ha detto in un dialogo web con Antonella Clerici, seguito da emoticon sghignazzante), a volte prende le distanze (“Ma poi se l’è inventato Diva e donna. Non mi hanno mai chiesto una ricetta, altrimenti avrei proposto una pasta ai frutti di mare… più dignitosa!”, detto in una risposta su Twitter dell’ottobre 2019, che sembrava definitiva).
Ma fu davvero Diva e donna l’artefice dell’audace colpo dei soliti ignoti dell’impiattamento, consumato ai danni della povera ex Velina? Noi il giornalismo d’inchiesta ce l’abbiamo nel sangue (anche al sangue, volendo), e per questo ci siamo messi a scavare come mai prima d’ora, cercando anzitutto di determinare l’uscita in edicola dell’articolo. La prima traccia internettiana del pezzo incriminato risale al al 13 settembre 2012, nel post canzonatorio (si fa riferimento anche a una piastra per capelli) di un defunto blog. Si presume sia il 2012 dunque l’anno della pubblicazione.
Interpellando un perito grafico, siamo in grado di scagionare però immediatamente e senza ombra di dubbio il settimanale fondato nel 2005 da Silvana Giacobini e passato poi alla direzione di Angelo Ascoli, tuttora sul ponte di comando. “La grafica di Diva e Donna è cambiata pochissimo negli anni”, dice l’esperto, “ed è totalmente difforme da quella della foto del pezzo sul pollo di Canalis circolante sul web. Stando all’evidenza gli indiziati potrebbero essere: Dipiù, Dipiù e Dipiù Tv e cucina (testata unica), Nuovo, Nuovo Cucina, Vero e Vero Cucina”. Sei sospettati dietro la sbarra, dunque.
In effetti nell’ambiente nessuno ha mai creduto davvero alla storia di Diva e Donna. Si è sempre ipotizzato si trattasse di una classica “mayerata”. Neologismo col quale si identificano da anni le trovate fra l’eccentrico e il border line dello scomparso Sandro Mayer, fondatore di Dipiù, morto il 30 novembre 2018 dopo una carriera lunghissima e fortunata. Genio del giornalismo popolare, sapeva fondere Padre Pio (una sua ossessione cartacea) e gli strass di Valeria Marini. Le uova strapazzate e la Regina d’Inghilterra. In un mix fra sacro, trash e profano inimitabile da altri. Sono andato a interpellare una gola profonda del Gruppo Cairo per venire a capo della questione: quel celebre pollo alla piastra uscì dunque su Dipiù?
“Se davvero Elisabetta Canalis non è stata interpellata, sarei portato a escludere Dipiù”, dice l’informatore “per un semplice fatto: Mayer su queste cose aveva una politica rigidissima: il personaggio andava comunque sentito. La sua autorizzazione andava chiesta anche per l’abbinamento del suo nome a una banale ricetta. Non ci si poteva giocare il rapporto con il vip. Può sembrare strano o incredibile, ma è così. L’autore, sia esso redattore o collaboratore esterno, aveva comunque l’obbligo di chiedere la ricetta o il permesso. Intendiamoci: Mayer ne ha fatte di tutti i colori. A Domenica In di tanti anni fa intervistò un bambino vittima di un sequestro e si prese le offese di Beppe Grillo a Sanremo per questo. Non c’era ancora la Carta di Treviso (quella che tutela i minori nel mondo dei media, Ndr), e in seguito in parte se ne pentì. Era figlio di un certo giornalismo degli anni ’60, con le trovate pubblicitarie alla Enrico Lucherini – e per queste è stato citato di recente anche in tv da Giletti da Alberto Tarallo -: un servizio o una storia poteva anche inventarseli di sana pianta, ma ci doveva essere assolutamente la complicità del personaggio o dei personaggi in questione. La loro autorizzazione. Per questo dico che anche un’innocua ricettina non poteva uscire da una redazione come Dipiù (che è una sorta di bolla spazio temporale degli anni ’60 calata ai giorni nostri), senza il placet del Vip”.
Una successiva, approfondita ricerca d’archivio, ha consentito di scagionare effettivamente Dipiù e il fratello Dipiù e Dipiù Tv e Cucina dalla rosa dei sospettatati. Restavano in gioco Vero, Nuovo e i rispettivi fratelli Vero Cucina e Nuovo Cucina. Il punto è che neppure una ricerca tramite l’Eco della stampa (che ha sotto controllo da sempre tutta la stampa nazionale) ha consentito di far sbucare da qualche faldone, file verificato o Pdf il benedetto “Pollo alla piastra di Elisabetta Canalis”. Il pezzo fantasma del giornalismo italiano. Che ha generato fiumi di parole, tutorial, dato spazio a battute e ironie di ogni ordine e grado. Ma che nessuno ha mai visto in versione cartacea. A meno che Elisabetta Canalis non ne abbia conservato una copia e ce la porti mettendo la parola fine a un caso, pardon a un pollo, che ormai sa veramente di bruciato.
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