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Perché Pio e Amedeo non sono neppure un’unghia di Checco Zalone

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Di Pio e Amedeo si dicono tante cose. Tra le tante che vorrebbero essere bravi quanto Checco Zalone (non a caso l’ex regista di Zalone Gennaro Nunziante dirige il loro prossimo film). Checco Zalone che sul politicamente scorretto ha costruito una carriera, perché è una materia scivolosa e complessa che sa maneggiare con talento e intelligenza.

Beh, non vorrei uccidere in culla il sogno di Pio e Amedeo, ma i due non sono né Zalone né politicamente scorretti. Sono volgarmente corretti, perché usano la volgarità in maniera prevedibile e conformista. Corretti perché la loro comicità somiglia di più alla risata grassa e convenzionale da Cinepanettone, non certo a quella che sgorga dal guizzo imprevedibile e scorretto del comico di razza.

C’è però qualcosa che è ben peggiore della loro comicità ed è il tentativo di nobilitarla. Di spacciarla, appunto, per politicamente scorretta, un’etichetta che si sono dati da soli un po’ come quelli che si definiscono “artisti” perché hanno fatto un remix reggaeton dell’ultimo singolo di Tommaso Paradiso.

Il loro discusso monologo a “Felicissima sera” racconta bene non tanto quale sia il loro tipo di comicità, ma quali siano i loro strumenti culturali a supporto. Venti minuti di battute da bar avrebbero dovuto spiegarci – nelle loro intenzioni- che questa rincorsa ossessiva del politicamente corretto impedisce ai comici di fare serenamente il loro lavoro e a noi tutti di sdrammatizzare un insulto o un evento con la giusta dose di auto-ironia. 

E voglio dire, il discorso potrebbe pure filare, ma perché fili davvero sono necessari due presupposti: che loro sappiano cosa significhi “politicamente scorretto” e che riescano a sostenere un tema così complesso con una scelta accurata dei temi e delle parole.

Ed è proprio sulla loro idea di cosa rappresentino le  “parole”  nella società e nella storia che l’apologia tv del politicamente scorretto sprofonda in una arrampicata becera e sgangherata per cui secondo Pio e Amedeo: “oggi contano più le parole che le intenzioni, contano più le parole del significato che ci metti dentro. Conta la cattiveria! Che problema c’è se dico nero o negro, ora il problema è la g in mezzo, se dicono itaGliano io mica mi offendo!”.

O anche: “È peggio se dico che i neri devono stare a casa loro, o se dico “Ohi negro, andiamoci a mangiare una pizza!”? . Secondo Pio e Amedeo uno che si sente dire “ricchione” dovrebbe farsi due risate. Un ebreo non dovrebbe offendersi se diciamo “ebreo” nell’accezione di tirchio, perché i genovesi non si offendono.

Argomenti che dovrebbero far ridere o forse riflettere, nelle loro intenzioni, e che invece sono la fotografia della loro ignoranza. Un’ignoranza amplificata e arrogante, per giunta, dunque pericolosa. Le parole, cari Pio e Amedeo, salvano, uccidono, insegnano, espandono la mente o al contrario la atrofizzano.

Le parole accompagnano l’evoluzione dell’umanità, ne nascono di nuove, ne muoiono di vecchie, sopravvivono quelle che continuano a raccontare il reale, quelle che ci camminano accanto. “Frocio”, “Ricchione”, Negro” raccontano periodi bui della storia antica e recente, pregiudizi, denigrazioni, discriminazioni.

In quelle parole, cari Pio e Amedeo, ci sono esattamente le cattive intenzioni di cui parlate. Affermare, inoltre, che “ohi negro andiamoci a fare una pizza” detto a un amico è una frase innocua, è una scemenza colossale. Certo che è innocua. Con gli amici i confini della confidenza sono altri, si decidono insieme, sono allineati.

Il linguaggio familiare e colloquiale si avvale di un registro unico e concordato, spesso scorretto, che non è replicabile altrove. Oggi Fabio Canino mi diceva: “Prova a entrare in un bar e a dire “Ehi ricchione fammi un caffè” e vediamo se quel registro è compreso, o se ti arriva un pugno in faccia”.

Ed è una scemenza colossale, pure, spostare l’attenzione sulla vittima anziché sul carnefice. Non è, secondo i due “comici”,  chi urla un insulto o porta avanti un pregiudizio con le parole a essere il problema, ma chi non è capace di disinnescare il problema con una risata. Capito? Sei tu, frocio, il problema, non chi ti dice frocio.

Quello che sfugge a Pio e Amedeo perché non hanno intelligenza e cultura è che le parole non sono altra cosa rispetto alle intenzioni. Anzi. Sono più delle intenzioni. Sono azioni. Le parole agiscono sulla realtà. Sono slogan, ferite, proteste, verità, inganni, rivelazioni, fotografie, accuse, morte, rivoluzioni. Le parole sono la realtà. Siamo noi. Sono la nostra identità. E quando dico che sono la storia, cari Pio e Amedeo, intendo dire che “ebreo” per dire “tirchio” richiama uno dei tanti pregiudizi che hanno contribuito a creare un clima d’odio nei confronti degli ebrei. E quei pregiudizi hanno fatto, purtroppo, la storia. Lo stesso non vale per i genovesi.

Infine, anche un cretino capirebbe che “fatti una risata” come invito a volare leggeri sulle offese è, come risposta a un problema, al livello di “sei obeso? E  magna di meno!”. Andatelo a dire a un ragazzino che si scopre omosessuale e ha vergogna di dirlo, che ha paura dei genitori o che viene deriso dai coetanei, “fatti una risata”. “A Malgioglio posso dire “Cristiano ma tu quando eri piccolo scappavi quando ti facevi mettere la supposta o te la facevi mettere di proposito?” e lui ride perché Malgioglio è una persona intelligente e auto-ironica”, avete detto a supporta della tesi.

A parte che la battuta è penosa e Malgioglio forse non riderebbe per quello, anche solo l’idea che Malgioglio rappresenti tutti gli omosessuali e non esistano sensibilità, percorsi individuali, età, contesti familiari e culturali, la dice lunga sull’intelligenza dei due.

Oppure, visto che Pio e Amedeo sono fan pure del catcalling, che vadano a dirlo ad una ragazzina a cui sono appena spuntate le tette e sta prendendo confidenza con la sua femminilità, con gli sguardi degli uomini, che quel “che ti farei” sull’autobus da un gruppetto di maschi è un complimento.

Il vero problema di Pio e Amedeo, in effetti, non sono le parole. Nel loro caso, sì, sono proprio le intenzioni. E la spiego facile, partendo da chi- sbagliando- li paragona a Checco Zalone. Checco Zalone è una maschera. Lui, nei suoi film, interpreta, è un personaggio pavido, cinico, ignorante, razzista. Un personaggio che nel film viene smascherato nella sua ignoranza e nella sua grettezza da altri personaggi e dallo spettatore stesso. Un personaggio che si evolve e si rivela. Alla Sordi.

Pio e Amedeo l’ignoranza la rivendicano. La sdoganano. Lasciano passare il messaggio che il politicamente scorretto sia una materia semplice, sguaiata, alla portata di tutti. Quando esistevano pagine di odio alla Sesso droga e pastorizia con milioni di seguaci, che ai tempi feci chiudere, pagine con meme e post su disabili, donne, ebrei, neri e altro, la replica più frequente che veniva mossa ai detrattori di quella pagina era “Noi facciamo satira, facciamo black humor”.

Il problema è che lo diceva non Louis C.K. o Ricky Gervais, lo dicevano degli ignorantelli furbi e pericolosi (talvolta dei tredicenni) che non facevano ridere nessuno, che non avevano alcun talento e capacità di maneggiare la materia, ma che agivano in una direzione ben precisa: sdoganavano l’ignoranza, il bullismo, con l’aggravante del branco, del cameratismo. Sdoganavano, anche, la mancanza di empatia.

Lo sdoganamento dell’ignoranza, l’esaltazione del contadino, del “pastore” nell’accezione superata di individuo genuino e ruspante che chiama le parole col loro nome (frocio, negro, cagna…) è stato il solco, in quegli anni, di una comunicazione politica e non solo politica che ha travolto e (dis)educato le masse (l’immagine del contadino sul trattore così di moda su quelle pagine è diventata in quegli anni Rovazzi sul trattore che va a comandare e poi il Capitan Salvini sulla ruspa che va a comandare e che è nemico dei “professoroni”, di chi ha studiato).

Pio e Amedeo sono una diramazione di quelle pagine e di quella comunicazione. E anche quando i due, nel loro disastroso monologo, portano il discorso su un binario politicamente corretto per far capire che non hanno pregiudizi ma che scherzano, dicono- badate bene- non che ognuno è libero di essere ciò che vuole, ma che “Ognuno nella camera da letto fa quello che vuole”, argomento becero di chi interpreta l’omosessualità come un tema, appunto, da camera da letto. Da sfera invisibile e privata, che non disturbi gli sguardi.

Tant’è che poco dopo si lamentano dei gay pride perché, affermano, “nel 2021 c’è ancora un corteo di gente che ostenta, io etero mica faccio il corteo urlando viva la figa, magari con in mano la figa di cartone. E bastaaaaa!”. Neppure uno straccio di autore amico, non necessariamente gay ma almeno con la terza media, che spieghi ai due la differenza tra ostentazione e rivendicazione, conquista, libertà. Confondono, Pio e Amedeo, l’indignazione scema e pretestuosa di questi tempi irrespirabili in cui i social decidono la loro battaglia del giorno con la critica a una comicità- la loro- che fa semplicemente pena.

E no, non è neppure vero che “non si può più dire niente”, visto che loro “non si può più dire niente” lo hanno detto durante una prima serata di Canale 5. Loro, per quel che mi riguarda, potranno continuare a dire quello che vogliono. Così come io potrò continuare a dire che mi fanno cagare. Senza cattiveria eh. Tanto loro non giudicano le parole, ma le intenzioni, se non ricordo male. E le mie intenzioni sono buone. Sono quelle di chi dà loro un suggerimento prezioso: studiate. O trovatevi un paio di autori che abbiano studiato più di voi.

Leggi anche: Felicissima sera: con Pio e Amedeo Canale 5 sdogana il varietà cafone

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