Coronavirus, Chiambretti: “Io ricoverato d’urgenza, salvo per miracolo. Ma ho perso mamma”
Piero Chiambretti, il racconto del Coronavirus e la morte della madre
Tra i grandi nomi del mondo dello spettacolo che in questi mesi hanno contratto il Coronavirus c’è anche Piero Chiambretti: il noto conduttore televisivo è stato ricoverato il 16 marzo scorso all’ospedale Mauriziano di Torino con gravi sintomi da polmonite. Nel reparto Covid ci è rimasto per 15 giorni, durante i quali ha vissuto il doppio dramma: la paura per una malattia che sembrava invincibile e la preoccupazione per la mamma, anche lei positiva e ricoverata nello stesso ospedale. Chiambretti, per fortuna, è riuscito a battere il Coronavirus, mentre la madre non ce l’ha fatta. Adesso, a quasi due mesi da quei tragici giorni, il conduttore di Rete 4 ha deciso di raccontare la sua esperienza con il virus.
Lo ha fatto con una lettera pubblicata in esclusiva da Repubblica. “Non potrò mai dimenticare – scrive Chiambretti – il giorno del mio ricovero. Il pronto soccorso, i suoi rumori, la confusione di medici e malati, le barelle, le mascherine, sensazioni di qualcosa che avevo visto alla televisione, ma che dal vivo erano un’altra cosa: più definite, più realistiche e tangibili, che allontanavano il rumore fastidioso delle parole della tv, così vuote e lontane. Passare dall’interessarsi degli sviluppi del virus, ad esserne colpito, cambia la prospettiva in modo netto”.
Il conduttore, nella sua lettera, sottolinea la sua gratitudine nei confronti degli infermieri, che chiama “angeli in corsia”: “La cosa che subito mi colpì di questi angeli – ricorda il conduttore – fu l’età: tutti giovanissimi con una energia che trasmettevano ogni volta che li chiamavi, sempre sorridenti e rassicuranti, anche laddove le condizioni di salute non erano buone. Non avevano ricette per una pronta guarigione, non avevano la pillola magica che fa tornare tutti a casa, ma la loro efficienza mischiata alla grande umanità erano una medicina molto più forte delle medicine sperimentali che somministravano. Sempre presenti, il giorno come la notte, sempre vestiti dalla testa ai piedi con le maschere protettive che lasciavano evidenti segni in faccia”.
“La mia storia – prosegue Chiambretti – è tristemente nota. In pochi giorni nello stesso reparto ho perso mia mamma, ma anche con lei il personale medico è stato perfetto, hanno tentato di tutto per salvarla, dandomi un sostegno psicologico nelle ore più difficili. Qualcuno, non so dove, ha scritto che ho avuto un trattamento di favore. Nulla di più falso. Dentro quelle stanze eravamo tutti uguali con un obiettivo comune: salvare la pelle. Pensare che ci fossero dei favoritismi è un torto che si fa a persone che oltre a lavorare in condizioni difficili hanno perso la vita per tanti di noi. La mattina successiva la morte di mia mamma, io miracolosamente ho cominciato a stare bene, tanto da essere dimesso dopo una settimana e due tamponi negativi. Era un lunedì pomeriggio, quando impreparato a lasciare l’ospedale sono tornato a casa in taxi in pigiama, considerato che portato via d’urgenza quindici giorni prima a sirene spiegate, non avevo neppure una borsa”.
“Ricordo la soddisfazione negli occhi degli infermieri e dei medici – conclude Chiambretti – nel consegnarmi una cartella clinica dall’happy end quasi come fosse guarito uno di loro. Oggi che sono a casa e leggo che 160 tra medici, infermieri e personale sanitario, hanno perso la vita per salvare quelle altrui che in molti casi neanche conoscevano, mi si stringe il cuore e penso come il nostro Paese ha in queste persone degli esempi da cui imparare tanto”.
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