Palmer, il nuovo film di Justin Timberlake non brilla per originalità ma è un piacevole segno dei tempi che cambiano
Justin Timberlake è tornato. A distanza di due anni dal suo ultimo disco “Man of the Woods” e a tre dalla sua ultima apparizione in un film (Wonder Wheel di Woody Allen), il poliedrico artista made in Tennessee ha deciso di fare il suo ritorno con nuovo film prodotto da Apple e disponibile dallo scorso venerdì sulla piattaforma streaming del colosso americano.
Un progetto a cui l’attore musicista ha creduto moltissimo sin dall’inizio e che gli stava per costare, oltre agli innumerevoli sforzi in palestra, anche il matrimonio (durante una pausa dalle riprese era stato immortalato mano nella mano con Alisha Wainwright, anche lei presente nel cast). Si chiama “Palmer” e veniamo subito al dunque: se cercavate qualcosa di davvero originale lo troverete sicuramente in…un altro film.
Sì, perché la storia assomiglia pericolosamente a quella di almeno un’altra dozzina di pellicole e solo nei primi quindici minuti ci sono abbastanza cliché da convincere anche il più nostalgico fan degli NSYNC che forse era meglio riguardarsi su Youtube l’esibizione di Justin al Superbowl con Janet Jackson. Quanto meno per il finale a sorpresa.
La storia è quella di Eddie Palmer. Ex quarterback promessa del football liceale che, perduta la retta via in seguito ad un terribile infortunio che ne ha distrutto la carriera, si ritroverà a scontare 12 anni di carcere per una rapina con tentato omicidio. Rilasciato con la condizionale, Eddie ritornerà alla propria cittadina del Louisiana alla ricerca di una nuova opportunità e finirà per affezionarsi ad un ragazzino sensibile vittima di bullismo.
Beh, che dire, era dal monologo sulla bellezza interiore della Leotta che non si vedevano così tanti stereotipi tutti assieme. Come riporta una delle tante stroncature presenti online, dai primissimi minuti c’è la netta sensazione che sia “quel film”. Quello dell’ex galeotto, quello del cattivone che però sotto sotto è più tenerone di Dan Arrow all’isola dei Famosi, quello dell’America che una seconda occasione sembra volerla concedere a tutti (Trump 2024?), quello del bambino tenero, quello del volemose bene sempre e comunque.
Non che ci sia necessariamente nulla di male nella prevedibilità di per sé. Le Rom-com, anche le più belle, non sono forse tutte varianti della stessa ricetta? Sappiamo benissimo dove ci stanno portando, ma non opponiamo resistenza. L’arte sta nel rendere il viaggio il più credibile possibile. Sta nel convincerci che lo scontato lieto fine, sia in qualche modo in discussione. Ecco in Palmer tutto questo non succede. Non c’è il sospetto che alla fine il bene trionferà. C’è un’assoluta certezza che non vacilla praticamente mai.
Nonostante questo, c’è qualcosa di questo film che forse non è da buttare. Un valore aggiunto dato dall’altro protagonista, il bambino di nome Sam a cui Eddie non può che affezionarsi (il bravissimo Ryder Allen al suo esordio). Un bambino diverso dall’ordinario, che sembra sentirsi felice al di fuori delle costrizioni del suo genere di appartenenza. Elemento che come capita in questi casi avrà fatto storcere il naso ai due estremi della stessa barricata: da un lato i fanatici dei movimenti LGBTQ che vedranno in Palmer una sorta di tentativo a buon mercato di lucrare su temi così delicati, dall’altro i cospirazionisti che vedranno nello stesso film un potentissimo strumento di propaganda no gender.
E se per i secondi si può solo provare compassione, online, sono spesso i primi a criticare più severamente il film, accusato di essere troppo semplice, senza il giusto background psicologico, troppo bidimensionale. Sì, perché a Sam piace giocare con le bambole, guardare un cartone popolare tra le bambine della sua età, travestirsi da fatina ma, soprattutto, non sembra vedere in tutto questo nulla di strano.
Ed è proprio forse questo il vero unico punto di forza di tutta la storia ma, al tempo stesso, ciò che lo rende poco digeribile per un certo tipo di critica: la sua spensieratezza. Lasciando così delusi tutti quelli che speravano di trovare una sorta di enfant prodige dei diritti queer. Non è importante in cosa si identifichi Sam, se si senta un bambino o una bambina o nessuno dei due. Non c’è nessun sottointeso alla sua sessualità presente o futura. Se è una fase, se a 12 anni preferirà i costumi da cowboy o se a 22 si sarà ancora di più convinto che una borsa di Hermes è molto meglio di un abbonamento in curva allo stadio. Ci sarà tempo per capire, per adesso lasciatelo giocare con le sue bambole.
Non ci si può liberare dalle “etichette” se non si è disposti ad accettare che possano anche non esistere. Sì, forse Palmer non è un film destinato alla storia, ma è proprio questo a renderlo incredibilmente importante. Perché se anche i film più insignificanti (Justin ci perdonerà) riescono ad affrontare con sempre più convinzione temi importanti di inclusione, forse non tutto è perduto.
Come già successo con il tema dell’integrazione razziale, arriveranno film migliori, personaggi scritti meglio e copioni meno prevedibili di un tormentone estivo, ma per adesso forse possiamo accontentarci di come certe tematiche trovino sempre più spazio anche all’interno del cinema più commerciale e meno militante. Si dice spesso che i film che guardiamo possano avere spesso un ruolo importante, specie in adolescenza, nella delineazione di una nostra sana scala di valori e di modelli da seguire. Ecco, con tutti i suoi limiti, vedere Justin Timberlake che difende un bambino libero e felice dall’ignoranza proprio male non credo possa fare. Soprattutto di questi tempi.