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Nino D’Angelo a TPI: “La povertà è l’odore che ti porti sempre addosso”

Immagine di copertina
Murale di Nino D'Angelo realizzato da Jorit. Credit: Cesare Abbate/ ANSA

"Draghi sta facendo bene. Ma anche Conte è stato all’altezza. Il Covid? Ho temuto di morire". Sul nuovo numero di TPI, in edicola da venerdì 10 dicembre, l'intervista al cantante napoletano

Nino DAngelo è tornato. Anche se, in realtà, non se ne è mai andato. Re indiscusso di Napoli, romano d’adozione da trent’anni, non ha più il caschetto biondo ma imbiancato, qualche ruga e la solita cazzimma di chi ha fame. “Perché quando nasci povero, è una condizione che non si dimentica”, mi dice.
Oggi ha 64 anni, due figli e quattro nipoti. Nella sua carriera ha venduto oltre 25 milioni di album, collezionando dischi di Platino e di Diamante, David di Donatello, Ciak d’oro e Nastri d’Argento. Adesso è impegnato – come racconta con una voce bassa, miscuglio inedito di italo-partenopeo – con “Il Poeta che non sa parlare”, progetto che mette insieme con il medesimo battesimo un album di inediti, un ambizioso tour live e il nuovo libro, appena pubblicato da Baldini+Castoldi. Nella sua biografia, racconta la sua storia di “ragazzo – per citare la prefazione di Nicola Lagioia – che trascorre il tempo tra piccole avventure quotidiane, angosciose paure, gioie esplosive e spaventi improvvisi”.
Tanti i momenti toccanti, dal papà che lo ammoniva guardando le biciclette che non ne avrebbe mai avuta una, all’incontro con padre Raffaello che ne intuì giovanissimo il potenziale, passando per le canzoni di malavita e quelle d’amore. “Prima di iniziare la nostra chiacchierata”, scherza “le devo però dire una cosa: ogni volta che esce un progetto nuovo si parla di me, e del fatto che vengo sdoganato. E ogni volta mi faccio la stessa domanda”.
Quale?

Mi chiedo da cosa devo essere sdoganato esattamente. La mia carriera è iniziata 44 anni fa. Ho fatto tanti film, tanti mutamenti, non so quanti artisti siano cambiati come me, ma ogni volta si grida alla rinascita. O alla nascita.

Effettivamente il primo a parlare di sdoganamento fu Goffredo Fofi. Affermò che lei non era solo un cantante, ma la voce del sottoproletariato napoletano. Era il 1993. Come se lo spiega?

Non me lo spiego. Forse perché sono un cantante napoletano, o forse perché quello che faccio è unico. E non lo dico con presunzione. In questi anni sono molto cambiato perché, crescere, equivale a una continua trasformazione. Vivere è cambiare.

Ha scritto due autobiografie. Una appena pubblicata, e una uscita vent’anni fa per Mondadori con il titolo “L’ignorante intelligente”. Quante esistenze sente di aver vissuto?

Io sono sempre il solito ragazzo di San Pietro a Patierno, la periferia di Napoli, un posto dove vai solo se lo stai cercando. La mia esistenza è cambiata con il tempo, ed è stata trasformata dal talento, dal sacrificio e dalla fortuna. Per andare avanti in una carriera ci vuole intelligenza, altrimenti si resta meteore. Adoro chi dura tanto perché vuol dire che ha saputo costruirsi con il lavoro. Pensa a quanto sia stato complesso per Gianni Morandi, o Adriano Celentano, restare protagonisti.

In alcuni casi il pericolo non è forse quello di non sapere quando smettere?

Nel mio caso il lavoro è anche la mia passione. Io ho paura di ritirarmi. Se mi togli la musica, se mi porti via l’arte, mi togli mezza vita. Anzi, forse non mi resta niente.

Eppure ci sono momenti, come accaduto durante la pandemia, in cui tutto si ferma. Anche la musica.

Il lockdown per me è stato un periodo impossibile. Una valanga di paura è finita su tutti quanti, e ho rischiato di restare sommerso. È difficile raccontare la vita con la morte vicino.

Di cosa aveva paura?

Di morire. Avevo paura per la mia famiglia, e ancora adesso so che non è finita. Bisogna stare attenti e vaccinarsi.

Lei ha fatto la terza dose?

La farò a fine dicembre.

E quando vede i no vax cosa pensa?

Un po’ sto incazzato, e un po’ capisco la gente che si mette paura. L’unica cosa che ci fa stare un po’ più tranquilli però sono i vaccini. La politica con il coronavirus non dovrebbe avere niente a che spartire. Il Covid-19 è una cosa molto seria, che va oltre le ragioni partitiche. Per prima cosa viene la vita.

La politica non le sembra una cosa seria?

Non più.

Perché?

È diventato tutto un gioco. Pensi che durante un evento senza precedenti, come la pandemia, è caduto il nostro governo. Non è una critica all’insediamento attuale, ma una presa di coscienza dell’irresponsabilità generale.

Le piace il presidente del consiglio Mario Draghi?

È un personaggio molto amato, e sta facendo bene. Ma non dimentichiamoci che anche chi c’era prima è stato all’altezza. Però, posso essere sincero?.

Deve.

La verità è che a me non piace più la politica. Siamo in una perenne campagna elettorale. Si va a votare e poi, chi perde, pensa subito come far cadere il governo. Chi viene battuto non accetta la sconfitta, ma così va male tutto il mondo.

Per leggere l’intervista completa sul settimanale The Post Internazionale-TPI: clicca qui
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