Il Festival dei maschi e l’imbarazzante monologo sulle donne di Barbara Palombelli
Difficile decidere da dove iniziare per commentare la presenza di Barbara Palombelli al Festival di Sanremo. Potrei forse iniziare dal silenzio assordante di quasi tutto il giornalismo italiano che sulla sua apparizione di ieri o finge di non aver nulla da dire o liquida la questione il prima possibile, come quando vuoi chiudere una telefonata e dici che ti si brucia lo stufato. O il gatto ha appena pisciato sul tappeto.
Perché Barbara Palombelli non è mica la prima che passa. Collega e amica di molti, amica di amici, amica di potenti, persona anche gentile e piacevole (ne sono testimone), è riuscita nel raro intento di fare un disastro a Sanremo senza praticamente ricevere mezza critica sensata oltre a quelle sui social.
E quindi, bisogna dire le cose come stanno. A me non si brucia lo stufato, visto che in casa mia cucina un uomo, ho tempo.
Intanto c’è un problema a monte. E il problema è che questo è un Festival di maschi che da due anni si auto-assolve con monologhi di donne o con presenze femminili che impreziosiscono il lavoro degli uomini, quelli che tengono le redini dello show.
Anche se sono donne realizzate, affermate, con posizioni importanti, sono gentilmente “invitate” dai padroni di casa. Ovvero due uomini che guadagnano uno 500.000 euro e l’altro 50.000 puntata per 5 puntate (più Ibra che ne prende 200.000 più sponsor), mentre da due anni arriva una donna pagata molto meno in un Festival di maschi con un monologo sulle donne che devono prendersi i loro spazi.
Meglio di niente, mi direte. Forse. Ma non è meglio di niente questo clima storto in cui Fiorello continua a dileggiare questioni come il sessismo e il bodyshaming perché “ormai è tutto sessismo e bodyshaming” dimenticando che i fondamentalismi non tolgono dignità alle questioni. E che forse, parlando a milioni di spettatori, potrebbe occuparsi del cuore delle questioni, non delle scemenze.
Un clima storto in cui arriva una brava direttrice d’orchestra, Beatrice Venezi, che chiarisce subito da quale parte della barricata sta e ci tiene a dire che vuole essere chiamata “direttore, perché le professioni hanno un nome” imbeccata dal conduttore. Certo, si dice “direttore d’orchestra” perché prima le direttrici non esistevano, al massimo le donne potevano lucidare il violoncello con un panno caldo. Insomma, una di quelle per cui il femminismo è una cosa troppo ideologica.
Un Sanremo in cui lo spazio prima del Festival è condotto da una donna, sì, che però è la moglie del conduttore, vedi il caso, la quale legge il gobbo come la Arcuri recitava in Carabinieri. Il tutto inframezzato dagli spot delle crociere, in pandemia, che lo so, con le donne non c’entra niente ma scusate, non potevo non dirlo.
Ed è triste ed esilarante leggere le critiche sui giornali in questi giorni: le donne (anche quelle con una carriera internazionale) descritte dai principali editorialisti come “disinvolte” e “spigliate”, ma tu pensa, parlano e muovono i bulbi oculari. Pure se sono state più brave dei conduttori.
Gli uomini tutti dei “gran professionisti”, che hanno retto il palco “nonostante le difficoltà”. Ma tu pensa, fanno i conduttori e gli showman da 40 anni e sono riusciti a reggere il palco. È come se mi stupissi del fatto che il mio piastrellista di fiducia da 30 anni sapesse mettere le piastrelle in bagno. Che professionisti. Pazzesco.
Nell’articolo di una firma di punta ho letto perfino “leggerezza” ed “eleganza” riferiti a Fiorello, appena reduce da un appassionante monologo sui cazzi degli animali.
E ora veniamo alla presenza della Palombelli, che ben si sposa con il contesto inquietante appena descritto. Intanto è difficile comprendere cosa ci azzeccasse la Palombelli col Festival, anche tenendo in considerazione la sua amicizia con i potenti del Festival.
Tralasciando il fatto che, nonostante faccia la conduttrice tutti i giorni tre ore al giorno, non riuscisse mai a guardare in camera. Ci riusciva Elodie, voglio dire, che fa la cantante.
Tralasciando le battute fiorite ovunque sull’intonazione della voce da diciassettenne pariolina che si sta giustificando col papà perché è andata a sbattere su un palo del Fleming con la macchinina elettrica, ci si chiede se fosse necessario farle dire quello che ha detto.
Investirla di un qualche ruolo di rappresentanza sulla condizione femminile. Il tutto mentre, dopo 40 anni di carriera, si fa prestare il microfono dal conduttore e quello che ci siamo appena detti.
Il suo monologo parte subito male, malissimo. “Questa è una serata dedicata alle donne, alle mamme, alle nonne perché hanno un compito delicato, quello di tenere il paese, perché tengono la scuole aperte attraverso i tablet, tengono le famiglie tranquille, accudiscono”.
Le donne devono tenere il paese? Ma poi che vuol dire che teniamo le scuole aperte attraverso i tablet? Gli uomini non sanno usare i tablet? Tengono le famiglie tranquille mentre gli uomini smadonnano? Accudiscono? Ma che vuole dire? Accudiscono chi? Cosa?
E qui, mentre sorgono i primi interrogativi, la Palombelli vira improvvisamente: “E quindi alle donne italiane voglio raccontare chi sono”. Il perché senta l’esigenza di raccontarci la sua biografia è mistero fitto.
“Ero una ragazzina. Amavo i Beatles e i Rolling Stones”, dice. Ma tu pensa, una ragazzina diversa, controcorrente, dadaismo adolescenziale. “Poi c’era Sanremo e ascoltavo con mio padre le canzoni, ma ascoltavo di nascosto De Andrè”. Perché di nascosto? Cioè, uno che ascoltava “La guerra di Piero” era un rapinatore di banche? Boh.
“Lui voleva che io diventassi come Gigliola Cinquetti col filo di perle, con una vita tranquilla come lui immaginava per Gigliola Cinquetti”. Cioè, il padre di Barbara Palombelli programmava la vita di Gigliola Cinquetti? Ari-boh. E ora viene il meglio.
“Io ero ribelle, guidavo moto e macchina senza patente, mi sono sfracellata , noi ragazzi cercavamo emozioni. Pensate che Luigi Tenco proprio qui, giocando con una pistola, ha trovato la morte. Un grandissimo abbraccio a LUIGGGI!”. Sì, i saluti a Tenco come se Tenco facesse parte della gggiuria demoscopica. Dunque Tenco giocava con la pistola. Era a Sanremo, si annoiava in camera, giocava a centrare i tulipani nel vaso e vabbè, è stato un incidente.
A questo punto, quando pensi che forse è la canzone di Renga a creare effetti allucinatori e, no, non sta davvero dicendo questa roba, la Palombelli ci fa sapere che da ragazzina ha lavorato tanto anche come commessa, standista e segretaria. Insomma, più di Salvini.
A quel punto, con una modalità didascalica che nemmeno i corsi di inglese in musicassetta negli anni ’80, parte il ritornello “chi non lavora non fa l’amore”. E quando pensi che la storia della pistola sia l’acme, la Palomba spicca il volo e si supera: “Ragazze, noi dovevamo lottare per i nostri diritti, voi donne VE LI AVETE GIÁ trovati fatti, adesso sta a voi difenderli ma con il sorriso, TANTO non andremo mai bene ai mariti, ai padri, ai fratelli, non va bene neanche Liliana Segre!”. Così, random.
Che tradotto vuol dire: “Non c’è più niente da chiedere perché tanto c’è la parità che VE L’AVETE GIÁ TROVATA PRONTA grazie a me che ero ribelle e facevo la standista e mi sfracellavo con la macchina. Ora difendetela ma COL SORRISO mi raccomando, non diventate quelle brutte femministe incazzate quando vi pagano la metà degli uomini magari anche sul palco di Sanremo, sorridete! Ciao Luiggiii!”.
Poi ci infila Liliana Segre, così, ad minchiam, come se la Segre la insultassero perché è donna e sorride poco o forse perché non ha mai fatto la standista o non le piacevano i Beatles o ascoltava De Andrè senza nascondersi, che sfrontatezza.
A quel punto speri solo che non dica che i nazisti giocavano con la pistola. Per fortuna non lo fa. Dopo la Segre, parte “Vacanze romane”. Così. E la Palombelli: “Roma è bellissima in agosto!”. Roba che se diceva “Forza Lazio”, era uguale.
Infine, il momento del riscatto, dopo una vita così dura tutta a sentire De Andrè dovendo nascondersi dal controspionaggio: “Mi chiamarono al Corriere della Sera e lì pensai che ce l’avevo fatta” (si vede che non pagavano 7 euro a pezzo i giornalisti, ai tempi ndr), ma poi la vera vittoria arrivò quando ascoltai la canzone dei Pooh!”.
Da questo momento non si capisce davvero più una cippa. Partono canzoni a caso, fa un salto temporale e dice “Ero a Repubblica, quell’anno arriva Barbarossa che canta ‘Portami a ballare’ e noi ragazze di Repubblica iniziammo a ballare in redazione!”. E lì pensi sempre che era bello quando non si prendevano 7 euro a pezzo, nei giornali, e avevi voglia di ballare in redazione anziché buttarti sotto la metro B.
E dunque il finale: “Le donne forti in questa Europa devono contribuire alla nostra rinascita (per un attimo ho temuto dicesse ‘Rinascimento’), non vi arrendete ragazze, correte, fate rumore!”. E non c’è manco bisogno di dirlo, di non arrenderci, perché siamo già tutte con le mani alzate, dicendo che basta, ci arrendiamo. Ha vinto lei, purché la smetta.
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