Il rapper che attraverso la musica dà voce ai detenuti del carcere di Varese
Dal 2014 il rapper Kiave viene ospitato in un carcere dove cura laboratori creativi con i detenuti che vogliono rimettersi in gioco. La sesta edizione a Varese ha prodotto tredici brani che faranno parte di un album disponibile online
Il dj scalda il mixer. Il fonico monta spie e casse, cavi lunghi e neri inondano il palco. «Check, one-two, one-two, ok». Le basi sovrastano le voci. «Che hai detto bro? Così si sente?». Sì, l’audio è buono. Il microfono è acceso, le rime fanno a pugni con la laringe, le mani alzate sorreggono il soffitto e i ragazzi sul palco sono visibilmente nervosi.
«Quando volete, noi ci siamo» abbozza qualcuno. Arriva il primo bagno di applausi. E allora tutti dentro. Tutti dentro al carcere.
Carcere, nessun errore. La casa circondariale di Varese, in Lombardia, si è trasformata in un vero palcoscenico con il progetto “Voci Spiegate”. Un progetto pensato, costruito e portato in giro per l’Italia dal rapper cosentino Kiave.
Dal 2014 l’artista viene ospitato in un carcere dove cura laboratori creativi con i detenuti che «vogliono (ri)mettersi in gioco». Insieme studiano l’hip-hop, la sua storia e la sua cultura, ascoltano basi, buttano giù qualche rima «giusto per far capire concretamente di costa stiamo parlando».
E poi via, penna e foglio direttamente in mano a loro, ai detenuti, a chi di voce solitamente non ne ha. Con i laboratori di Voci Spiegate ragazzi di qualunque età si mettono a nudo, si raccontano rappando davanti al loro primo vero pubblico e su basi musicali studiate da Kiave, al secolo Mirko Filici. La sesta edizione, andata in scena ai “Miogni” di Varese, ha prodotto tredici brani che nel giro di un mese finiranno in un album poi disponibile online.
Qui finisce la spiegazione, perché dopo le parole di circostanza, i ringraziamenti all’Associazione Assistenti Volontari San Vittore Martire che ha voluto e finanziato l’intero progetto, agli educatori e al personale della casa circondariale, il microfono l’hanno preso loro, i detenuti.
Gli applausi sono arrivati subito. Applausi di incoraggiamento, i più facili. Ma quelli che il grande pubblico presente al carcere di Varese ha regalato spontaneamente a metà concerto, a scena aperta, a ogni rima, racchiudevano molto altro.
Ammirazione, forse anche un pizzico di invidia da parte di qualche compagno di Tony, Domino, Labi e Pach, i quattro detenuti protagonisti del progetto. «Loro hanno avuto il coraggio di farlo, io non me la sono sentita» rivelerà qualcuno. «Che cosa avevamo da perdere? Stiamo già in carcere, peggio di così non poteva andare…». Amarezza corretta con un pizzico di ironia. Ma dietro a quello che più che un esperimento è un’esperienza, c’è di più.
«Ci vuole coraggio» sentenzierà Kiave, «ci vogliono le palle per salire su questo palco e sbattere in faccia a tutti i propri errori, le scelte sbagliate e anche quella voglia di non sentirsi per questo esclusi e diversi». Ci vuole coraggio. Perché l’odio, l’inferno, le armi, le «serate finite a mazzate», le notti sulla panchina «tirando cocaina», le «spade» e le prostitute quando le senti in radio sono ovvie, quasi imperative.
Ma quando sul palco ci sono persone – ragazzi – che raccontano quelle che non sono «solo» parole ma ricordi e incubi, cuore, polmoni e animo restano pietrificati, immobili come sotto le bombe. Le idee assumono i contorni di un volto e le «cazzate», come le chiamano loro, ti si siedono così vicine che puoi sentire l’odore della paura, della furia, della delusione, dell’annientamento, del sole mangiato dal buio.
Ci vuole coraggio. Perché pensarlo senza sentirsi degli ipocriti è un conto, dirlo ad alta voce senza essere derisi è un altro ma mettere in rima la voglia di riscatto, ammettere di credere per davvero nella speranza che sì, si può davvero ricominciare e che «nonostante tutto siamo figli, fratelli, mariti di qualcuno come voi» è tutta un’altra storia.
Alla casa circondariale di Varese il rap e l’hip-hop hanno urlato per quasi tre ore. Tre ore suggestive in cui l’atmosfera da concerto ha sostituito quella del carcere. Solo per poco, certo. E così doveva essere. “Voci Spiegate” non è fatto per dimenticare, per rinnegare il passato inventandosi una vita diversa.
Aprire il microfono ai detenuti è dare il megafono alla nostra quotidianità, sono quelle realtà a volte rinnegate e troppo (spesso) riassunte in titoli di prime pagine che ci prendono e ci trascinano oltre l’inchiostro e la puzza di buonismo. È soprattutto l’essere testimoni della ripartenza. Sedersi e ascoltare i Tony, i Domino, i Labi e i Pach vuol dire dimenticarsi i ruoli sociali, mischiare il mazzo e staccare le etichette, (s)battere via il (pre)giudizio, imparare ad accettare, ad ascoltare, a capire, a pensare.
E qui gli altri applausi, quelli dei ragazzi delle scuole di Varese presenti al live. Applausi ai detenuti ma soprattutto ai loro insegnati. Gli applausi più sinceri, i più difficili (da strappare). «Grazie per averci portati qui».
La catarsi esiste e oggi è a tempo di flow. «Dopo quest’esperienza sto recuperando il rapporto con mia sorella, ha visto che sto cambiando, che sto diventando una persona migliore. Il carcere mi ha fatto apprezzare di più la vita e la mia vita. Prima pesavo 40 chili, non mangiavo e non dormivo. Ora invece credo in me stesso. Mi voglio bene e sono pronto a riprovarci». Yo.
A cura di Kevin Ben Ali Zinati