Gli 80 anni di Franco Battiato, l’esploratore della musica italiana

Sperimentatore di suoni e linguaggi artistici, Battiato è stato un mix caotico e razionale di ingredienti. Nessuno come lui è riuscito nella sintesi degli opposti, di carne e spirito, di quotidiano e di eterno. La sua è musica leggera, ma con una cifra maestosa di classicismo. I suoi sono testi “per tutti”, ma con una varietà e profondità di citazioni e messaggi da scomodare filosofi, teologi, studiosi di culture orientali
Ognuno dei grandi nomi della canzone d’autore ha impresso un tocco personale e distintivo nel panorama della musica italiana.
Fabrizio De Andrè l’ha fatto con una capacità inedita di partire dalle suggestioni della canzone francese per poi approdare al folk americano ed alla mediterraneità, scrivendo dei meno visibili, degli “ultimi”, degli sconfitti. Francesco Guccini, con la sua ruminazione delle influenze americane unita ad una qualità inarrivabile di parola scritta-parola cantata, ha generato uno stile che è stato (ed è) riferimento anche oggi. Lucio Dalla, il più poliedrico, è riuscito nell’impresa di miscelare jazz e musica leggera, futuro e presente di vite giovani ed inquiete. Il milanese Enzo Jannacci, inafferrabile come un trapezista, più di chiunque altro ha descritto il surrealismo sofferto e sofferente delle vite di tutti i giorni. Poetico come un pittore, Francesco De Gregori, ha disegnato mondi inafferrabili, soppesando le parole come caleidoscopi.
E poi c’è Franco Battiato: nessuno come lui è riuscito nella sintesi degli opposti, di carne e spirito, di quotidiano e di eterno. La sua è musica leggera, ma con una cifra maestosa di classicismo. I suoi sono testi “per tutti”, ma con una varietà e profondità di citazioni e messaggi da scomodare filosofi, teologi, studiosi di culture orientali.
Se c’è qualcuno che ha portato la nostra canzone verso “un altro mondo”, alla ricerca di un centro di gravità permanente, questo è Battiato. Che avrebbe compiuto 80 anni i questi giorni. E due volumi usciti in questi tempi contribuiscono al meglio a comprenderne vita, opere, pensiero e idealità. E aiutano a ricostruirne il profilo, tra fatti, produzione ed eredità artistica.
Una vita
La vita di Battiato è una traiettoria simbolica, ma anche enigmatica: un giovane siciliano arrivato a Milano per cercar fortuna nel mondo delle sette note e che non avrebbe probabilmente mai immaginato di poter diventare uno degli esponenti più importanti della nostra canzone.
L’aiuto migliore per seguire il percorso esistenziale dell’artista siciliano è “Sacre sinfonie. Battiato: tutta la storia” (Il Castello, 2025), l’ultima fatica di Fabio Zuffanti, ottimo autore ligure (nonché egli stesso musicista di spessore) che ha speso il suo tempo per mettere su carta una biografia romanzata che racconta in perfetta cronologia le vicende del musicista siciliano.
Si va dalla prima timida esibizione casalinga di fronte ad un musicista siculo con buoni agganci romani, Gregorio Alicata («Gregorio disse che il talento c’era, si dovevano mettere a posto diverse cose, ma le possibilità di crescita erano evidenti. Bisognava darsi da fare, comporre altre canzoni e smussarle fino al punto in cui sarebbero risultate pienamente convincenti. Questo lavoro avrebbe dovuto farlo in primis Francesco, ma il supporto di un produttore sarebbe stato ancora più utile. Quindi disse che sì, lui appoggiava in pieno l’idea di presentarsi presso un’etichetta e che poteva aiutarlo», pag.38) al trasferimento coraggioso al Nord operoso ed attrattivo.
Nel libro si segue lo sbarco a Milano, la frequentazione dell’ambiente musicale a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, il primo 45 giri uscito nel 1965 («la sua prima foto ufficiale in veste di cantante lo vedeva con il suo cappotto scuro, la sciarpa e un paio di occhiali dalla grossa montatura nera, in quel periodo di gran moda, sullo stile di quelli di Gregorio Alicata o di Enzo Jannacci», pag 85).
E poi la mancanza di «un centro di gravità permanente», il viaggio depresso «e disastroso» a New York, l’incontro con la musica colta, le collaborazioni illuminanti con Stokhausen («il compositore vedeva in Franco il riflesso del giovane sé stesso», pag. 166), Ballista, Giusto Pio, le amicizie con Giorgio Gaber e Claudio Rocchi, l’approdo al pensiero di Gurdjieff ed alla meditazione, l’arrivo del successo con milioni di copie vendute, la sperimentazione degli altri linguaggi (l’opera lirica, i festival di cui era curatore, il cinema, la pittura).
Poi arriva lo status raggiunto di «star delle musica», che non lo soddisfa e da cui anzi cerca di rifuggire. Per poi incontrare la sintonia artistico-spirituale con il filosofo Sgalambro: «Ora che Giusto Pio aveva diradato le sue collaborazioni, ecco entrare in scena Manlio Sgalambro, che immediatamente fu riconosciuto come un nuovo mentore, oltre a essere una persona che con il suo sapere avrebbe potuto fornire quegli stimoli che Franco andava cercando. Dopo l’incontro Battiato lesse i suoi libri, si appassionò, approfondì il suo stile e le sue teorie. Infine prese la la decisione, basandosi solo sull’istinto e con la certezza di un positivo risultato: avrebbe chiesto al filosofo di scrivere dei testi per lui, non importava se sarebbero stati distanti dal suo consueto mondo, anzi sarebbe stato positivo per costruire l’ennesimo nuovo sé» (pag.359).
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E poi ecco venti anni di dischi filosofici, l’ultimo album Torneremo ancora, poi la malattia e la morte. Che Zuffanti racconta così: «A stargli accanto, oltre ai familiari, arrivò anche padre Guidalberto Bormolini, colui che in Attraversando il Bardo aveva così sapientemente dissertato sull’ultimo viaggio. Nel mentre, Juri Camisasca dalla sua dependance copriva il tratto di strada nel verde per recarsi ogni giorno al capezzale dell’amico di sempre e condividere con lui attimi nei quali non c’era bisogno di parole…solo pochissimi erano ammessi alla villa, Franco aveva bisogno di tranquillità, doveva assorbire pace perché il viaggio potesse essere in ogni modo beatifico. La lotta tra terra e aria si concluse il diciotto maggio 2021. In quel momento Franco Battiato non fu più un essere mortale: la sua figura trasparente, prosciugata fino a diventare completa essenza, esalò l’ultimo respiro e liberò l’anima che si involò verso nuove trasformazioni» (pag 458).
Il pensiero
Sperimentatore di suoni e linguaggi artistici, esploratore spirituale, autore poliedrico, pittore, regista: Battiato è un mix caotico e razionale di tutti questi ingredienti. Ma per addentrarsi con coraggio nelle cose dette e pensate dall’artista in sei decenni di operosità, giunge in aiuto il volume “All’Essenza” (Mondadori, 2025), curato da Giordano Casiraghi (uno dei maggiori conoscitori dell’intera produzione musicale colta italiana) per la Fondazione Battiato: il libro racconta – attraverso gli scritti, le interviste ed i pensieri sparsi – la qualità e la profondità della ricerca dell’autore siciliano. E qui si scoprono parecchie cose del Battiato-pensiero.
Sulla musica l’artista diceva: «La musica per me è uno strumento per raggiungere certi livelli spirituali. Oggi sono capace di concentrarmi nel silenzio, è una sensazione che diventa materia. L’abbandono totale non sempre consente una completa sintonia con l’esterno. È necessario ascoltare gli altri, solo così possiamo comprendere la vera musica. Vivo nel sacro e la mia musica riflette questa dimensione».
E sul senso del sacro: «Per me la religione è l’atteggiamento di sacralità verso la vita. Centro di gravità permanente si presta a molteplici livelli di lettura. È una canzoncina semplice come una filastrocca per bambini, ad un primo livello, infatti i bambini l’hanno imparata subito e se ne sono appropriati, con mio grande piacere… ma poi c’è dietro Gurdjieff. Trovare un centro è sempre stato l’obiettivo di tutte le scuole mistiche. Vuol dire scoprire quella parte di te che non si fa più sballottare di qua e di là da tutti i venti, da tutti gli avvenimenti esterni».
Sulla società: «Troppe ingiustizie, troppa indigenza e troppi bisogni insoddisfatti. Di una cosa sono però convinto: non servirà mai la politica a risolvere i problemi se i cuori delle persone non cambiano. Auguro a chi verrà dopo di me il migliore dei mondi. Ma per costruirne uno davvero vivibile, sempre ipotizzando che sia possibile, occorre partire da noi stessi. Lo sforzo deve essere di ciascuno».
Sull’essere musicista: «La funzione del musicista, la mia funzione sociale – per usare un paradosso – è quella di dividere le masse, spingerli a riprendersi una coscienza individuale, e solo allora, eventualmente, ritrovarsi uniti come massa cosciente, perché il concetto di comunità ha senso solo quando ognuno ha conquistato la sua libertà».
Ed proposito di religiosità: «La gente è frastornata dai luoghi comuni, non ultimo quello così deprimente che vuole i religiosi stupidi e gli atei intelligenti. Si perdona ad Einstein il fatto che credesse in Dio solo perché alla fin fine è pur sempre stato l’inventore della teoria della relatività, senza capire che è proprio dalla sua fede che son nate le sue scoperte scientifiche. Ma non è nemmeno giusto piegarsi in eterno a un tale pregiudizio. Viene il momento in cui si ha il dovere di rivendicare la propria verità, serenamente ma con forza. E non è detto che la gente non ne resti colpita, tant’è vero che un disco difficile come Fisiognomica ha avuto successo».
Un mondo musicale
Parlare di quanto ha scritto ed inciso Franco Battiato per estrarne gli episodi migliori è un’impresa ardua, anche perché il percorso del cantautore siciliano procede per fasi e per strappi. Del suo primo periodo, puramente sperimentale, forse l’album più rappresentativo è “Pollution” (1972), che unisce con potenza inedita avanguardia e suggestioni rock, seguito da “Clic” (1974), minimalista e poetico e da “Battiato” (1977), marmoreo esempio di sonata contemporanea per un solo accordo di pianoforte. Poi, di colpo, il cambio di registro.
Il periodo 1979-1985 è quello del successo colossale e inatteso. È chiaro che il disco imperdibile di questa stagione è “La voce del padrone” (1981), ellepì che contiene “Cerco un centro di gravità permanente”, “Bandiera bianca”, “Cuccurucucù” e “Sentimiento nuevo”. Qualcosa che appartiene all’eternità della musica italiana, un po’ come “Dalla” (1978), “Fabrizio De Andrè” (1981) e “Via Paolo Fabbri 43” (1976) di Guccini.
Gli altri album di questo periodo (si pensi a “L’era del cinghiale bianco” e “Patriots”) gli fanno da contorno nobilissimo. Nel periodo successivo a questa eccezionale risalta lo stupendo “Fisiognomica”, che ha dentro “E ti vengo a cercare”, “Nomadi” e “Un oceano di silenzio”.
“L’ombrello e la macchina da cucire” (1995) è l’album dell’inizio della lunga collaborazione con Manlio Sgalambro ed è forse quello in cui l’eccezionale novità di un filosofo autore di testi risalta maggiormente, seguito nel 1998 da “Gommalacca”, il miglior prodotto della collaborazione tra i due.
Negli ultimi anni i suoi lavori più convincenti sono stati “Fleurs” (primo di una serie di album-omaggio a grandi canzoni altrui, da Tenco a Otis Redding) ed “Il vuoto” (2007), disco mistico e di parola teoretica cantata.
Franco, l’eremita
Il tutto ci aiuta a comprendere una cosa: con Battiato ci troviamo di fronte a uno dei personaggi più importanti della cultura italiana degli ultimi cinquant’anni. Non è stato solo un musicista, ma qualcosa di più: un esploratore coraggioso di culture e linguaggi che sfuggono dalle categorie del solito e del già visto. Un narratore della sua epoca, di cui ha cantato splendori e bassezze. Ed un esploratore dell’anima.
Una delle sue dichiarazioni più ricche ed illuminanti – raccolte da Casiraghi – lo racconta senza mezzi termini: «Sono un meditativo, amo la concentrazione, amo le piccole cose. Una volta ho incontrato un anacoreta, durante i miei viaggi. Ci siamo intesi con facilità, anche attraverso il non detto. Sono rimasto incantato dalla semplicità e dall’immediatezza comunicativa di quest’uomo. Gli occhi incredibili, profondi, mi hanno colpito più di tutto. Sì, se dovessi scegliere cos’altro essere, qualcosa di diverso da un musicista, vorrei essere un eremita».
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