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Home » Spettacoli

Lodo Guenzi a TPI: “No, il suicidio non è l’unica via d’uscita”

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L'esaltazione della fragilità è solo un trucco per non farla esplodere. Uccide più l'assenza di diritti che l'aspettativa su se stessi. Oggi ti dicono: stai male? Non vergognarti. Ti pago pure lo psicologo, basta che non rompi. Ho vissuto anche io un momento molto buio, ma ho trasformato quel disagio in energia

Lodo Guenzi si trova al teatro nuovo di Verona per la quarta serata di “Trappola per topi”, giallo di Agatha Christie. È soddisfatto perché «è sempre tutto pieno», ma confessa di aver accettato di esibirsi in quelle date anche per evitare di andare a Sanremo, «un’occasione straordinaria la prima volta perché arrivando da sotto puoi portare una qualche alterità, ma la caratteristica del generalista è quella di assorbire tutto, come il capitalismo, e dalla seconda volta fai parte di un arredamento», dice a TPI in attesa di andare in scena. 

Hai parlato della paura di fallire che ti ha travolto la prima volta a Sanremo. Ma poi è andata benissimo, vi siete classificati secondi e “Una vita in vacanza” è diventata una hit. È la paura che ti fa fare cose grandi?

«Io credo che sia una questione di moltiplicatore delle scommesse. Più senti che la posta in palio è alta, più in qualche maniera può essere alta la vincita banalmente. Ma diventa complicato oggi parlare di fallimento, pensando alla ragazza di Milano morta suicida a 19 anni».

Aveva scritto su un biglietto di aver fallito in tutto. 

«Per questo diventa complicato parlarne. Ma credo che bisognerebbe fare una distinzione prima di entrare nel merito: esiste il campo delle ambizioni e quello dei diritti. Le ambizioni non sono un diritto. Diventare una delle band più importanti di questo Paese è un’ambizione. In base al fatto che stai rincorrendo un’ambizione, ha assolutamente senso sacrificare tempo, soldi, fare scommesse totalmente a rialzo, rischiare e vedere come va. Il problema del sistema in cui viviamo è che trattano i diritti come ambizioni. Dicono al ragazzo che viene pagato quattro euro l’ora per fare un lavoro stagionale che per essere pagato con uno stipendio decente e dignitoso deve prima investire il suo tempo nella scommessa di mettersi a lavorare gratis. Questa è la differenza». 

Stai dicendo che una cosa è avere un sogno e rincorrerlo con la dovuta paura di fallire, un’altra è avere la stessa ansia di un aspirante rock star quando si sta semplicemente chiedendo una vita normale o un lavoro.   

«Io non ho fatto l’università, ma mio padre ha insegnato all’Università tutta la vita, e la sensazione che ho è che in questo momento la competizione sia un elemento di depressione così forte perché sembra un antipasto del mondo fuori. Mentre prima a scuola potevi sbagliare perché ti preparavi agli schiaffi della vita, oggi significa anticipare l’ingresso in un mondo in cui chi non eccelle merita di fare una vita orrenda».  

Hai scritto di non riuscire a smettere di pensare a quella studentessa, perché?

«Credo che tutti noi, quelli della nostra generazione, possano aver vissuto momenti di smarrimento importante in cui perdi il senso delle cose e in qualche maniera il vuoto è vicino, sentimento ovviamente molto umano e comprensibile. Il tema del suicidio mi è molto vicino perché due persone della mia vita hanno fatto questa scelta. Detto questo mi sembra che oggi la pressione del sistema in cui viviamo conduca le persone a vergognarsi sempre un po’ di meno della fragilità, e questa è la parte positiva, ma il modo in cui si sta parlando di questo disagio è paternalista, ti dice: “Sotto sotto tu puoi stare male, hai diritto a un aiuto, basta che non rompi le palle”. Basta che questo disagio non si trasformi in un’energia, in una rabbia, in qualcosa che in qualche maniera ribalta il piano del sistema dato. Ho la sensazione che si dica alle persone: “Puoi stare male, ti capiamo, adesso non è più una cosa di cui vergognarsi, ti mandiamo dallo psicologo magari le prime sei sedute te le paghiamo noi, poi te le paghi tu, basta che non rompi».

Normalizzare il disagio perché non esploda?

«Quel momento così buio che ho vissuto per me è stato l’inizio di un lustro in cui ho trasformato il disagio in energia, anche solo banalmente per fare qualcosa che mi sembrava avesse senso per la mia vita, e infatti quell’energia in qualche maniera ha rotto le palle. Il fatto che fossimo cinque scappati di casa con un grosso disagio rispetto al mondo che ci circondava, che non abbiamo cercato di andare a fare concorsi o di spedire il disco in giro, ma abbiamo telefonato ai bar di tutta Italia con un’agenzia di booking fittizia denominata da noi “la fionda” ha cambiato un po’ il mercato, ha rotto le palle al sistema, in anni in cui il mondo della musica non era ancora diventato la bolla speculativa di adesso, in cui non sapeva ancora da che parte pendere per sopravvivere».

Ma cosa è successo quando hai pensato di sparire?

«C’è un esercizio che fanno fare a teatro per capire il tipo di attore che sei e che persona sei, in cui ti fanno immaginare di essere dentro una cassapanca che affonda in mezzo al mare. L’acqua sale sempre di più, e ti dicono che a un certo punto annegherai. Nel momento in cui capisci che stai arrivando alla fine ci sono quelli che fanno di tutto per uscire, quelli che urlano e quelli che si abbandonano, io faccio parte di quelli che si abbandonano, credo sia un approccio che hanno un terzo delle persone al mondo rispetto alla situazione di difficoltà. Secondo me si innesca in molti il pensiero logico che quando senti che non hai via di uscita tronchi la partita con una via di uscita laterale. Credo che le due persone della mia vita che hanno fatto questa scelta si sentissero senza via di uscita. Ovviamente la riflessione non è su quello che sceglie di fare una persona, ma se stiamo progressivamente facendo affondare una generazione in una cassapanca che sprofonda in mezzo all’oceano». 

Soffrivi di ansia da prestazione?

«No, per me la questione è sempre stato un bilanciamento tra gioco e candela, per questo queste storie mi colpiscono, perché mi sembra che stiamo consegnando a questa generazione un mondo che non vale il gioco che stanno giocando. La competizione che stanno facendo non vale la candela del mondo in cui cercheranno di realizzarsi. Mi sembrava che la vita si stesse sgretolando per vari motivi e di non riuscire a svoltare il percorso in accademia, e che comunque fuori da lì non mi sarebbe successo nulla di buono. Grazie al cielo e grazie all’incontro fortunato con un maestro questa forma di disagio me la sono portata dietro, ed è stata fondamentale perché molto presto, dopo essermi diplomato a 21 anni, a 22 ho mollato il teatro, sentivo che in quella strada c’era un soffitto di cristallo. Raccontavo cose che interessavano a pochi in teatri vuoti o pieni di persone anziane e per me non aveva nessun senso, i miei amici che suonavano invece stavano facendo succedere una cosa. La popolarità l’ho ottenuta dopo aver provato il disagio».

Ti è mai tornata la sensazione di voler sparire, non nella sua accezione estrema, ma nel senso di smettere di essere un personaggio pubblico?

«Ovviamente. Anche se non sono famosissimo come Vasco Rossi, l’essere famoso porta con sé un sacco di seccature, rotture di palle, matti che hanno a che fare con te e sono convinti di essere persone della tua vita anche se non ci hai mai parlato. Ho trovato faticosa la popolarità, ho avuto voglia dell’oblio, ma prima di andarlo a raccontare in pubblico ho pensato: ho la faccia di andare a spiattellare a qualcuno che non arriva alla terza settimana del mese gli incredibili problemi della mia popolarità? Invece oggi i personaggi pubblici hanno iniziato a raccontare alcune loro fragilità, inizialmente per una buona ragione: smontare il mito carrierista e arrivista. Molto presto però si è capito che era una nuova forma di pubblicità. Una modella può avere la foto patinata ma anche quella struccata coi brufoli, ma è una donna che comunque è più bella di qualsiasi altra donna che puoi incontrare per strada, anche se fa finta di essere accessibile perché ha i brufoli. Ma se hai i brufoli non sei una modella. Così facendo aumenta la rabbia sociale verso i ricchi. Molte persone famose che utilizzano questa forma di promozione arrivano a raccontare cose oggettivamente complicate e problematiche ma che nascono da situazioni di totale privilegio». 

Non posso non pensare al monologo di Chiara Ferragni a Sanremo. 

«Deontologicamente non posso esprimermi perché ero in teatro e non l’ho seguito».

Ha celebrato la fragilità e detto alla se stessa bambina che non era sbagliata, che era abbastanza. 

«Ma non senti una certa pentola a pressione che inizia a ribollire? Queste cose parlano a una bolla di borghesia semi colta, ma sono totalmente irricevibili da uno che ha problemi di lavoro e a cui non frega niente del suo disagio se non per mero gossip. Come diceva Gaber, il coperchio sta cominciando a saltare. Questa cosa qui ha cominciato un po’ a rompere le palle. Mi parli del terribile problema di “vongola 83” quando ti fa un commento, ma magari gli hanno delocalizzato la fabbrica in Polonia per sfruttare qualcuno peggio di lui, è pieno di rabbia e si sfoga con una persona ricca con gli strumenti culturali che ha perché non ha studiato, mentre noi abbiamo studiato e stiamo usando quello che abbiamo studiato per provare ad educare quelli che hanno lavorato al posto nostro mentre noi studiavamo. L’unica frase che ho letto di Chiara Ferragni è “Pensati Libera”, una scritta che c’è a Bologna e che ogni volta mi fa pensare alla frase di Tolstoj: in questa società per essere libero devi avere un milione. La libertà senza uguaglianza è privilegio».

Nella canzone “Che Benessere” dell’ultimo album citate Giorgia Meloni che investe sulla paura, ma dite anche che la paura è la nuova felicità: in che senso?

«Quella parte fa un doppio salto. Giorgia Meloni investe sulla paura perché ha fatto propaganda sugli stranieri e poi sui lavoratori fannulloni che stanno a casa con il reddito di cittadinanza. Ma la paura è la nuova felicità vuol dire anche che in qualche maniera questa onda di liberazione della paura ha creato una bolla nella quale stiamo bene così a raccontare che temiamo tutto, e il mondo deve esserci di conforto, ma sempre in un meccanismo in cui però non farai niente di sconveniente. E paradossalmente l’unica persona che dice veramente a gran parte degli italiani ‘“tu sei abbastanza” in questo momento è Giorgia Meloni. Se lo dice un ricco è un inganno, perché anche se vai bene così non potrai mai partecipare alla sua festa. All’interno di un Paese che sta crollando, dove tutti sono disperati e incazzati, c’è una parte che non propone un cambiamento ma dice ai disperati che manifestano la propria rabbia nelle maniere più becere come si parla bene e perché non vanno bene, Meloni ti dice continua a vivere in questa merda, ma vai bene così». 

Meloni dice anche, non è colpa mia, al massimo è colpa del tuo simile. 

«Sì, ma che non c’è niente di sbagliato nel tuo fare schifo. In questo contesto quella che dice tu sei abbastanza è lei».

Dunque, per riassumere, uccide più l’assenza di diritti che l’aspettativa su se stessi? 

«Assolutamente sì, chiaramente è il sistema di lavoro totalmente fottuto che uccide. Quando la competizione per eccellere si trasforma in competizione per sopravvivere, non ha più senso eccellere e non si può sopravvivere, e non si può nemmeno fallire, perché in questo sistema fallire significa che ti vengono a prendere la casa. Fallire è il fondamento per fare cose grandi, ma devi costruire un sistema in cui le persone abbiano lo spazio, il tempo, il lusso di fallire almeno un paio di volte». 

Hai detto che il modo per riprenderti dal tuo momento buio è stato buttarti nella musica, ma in “Fottuti per sempre” scrivete che non è vero che la musica ci salverà.  

«Diciamo che ho vissuto quel momento di grande crisi a 20 anni ma che piano piano mi cambiò la vita, quella sofferenza diventò energia, ma per essere così forte come sempre in età giovanile hai bisogno di credere all’impossibile, che quello che fai possa cambiare il mondo, nel nostro caso quello della musica. È stato chiaro a un certo punto che eravamo riusciti a cambiare la nostra vita, ma non il mondo, cosa che credo succeda a molti. Non è vero che la musica ci salverà nel senso che non è vero che ci salverà tutti quanti». 

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