L’attore Tommaso Basili si racconta a TPI: “Essere figlio di diverse culture è stata la mia forza”
Padre italiano e madre del Madagascar, cresciuto fra Europa e America, l'attore 44enne spiega a TPI: "Questa grande diversità di culture mi ha dato un'identità forte e una grande adattabilità, importante nella vita per sentirsi bene dovunque"
È uno degli attori italiani più internazionali del nostro panorama cinematografico e a dimostrarlo per Tommaso Basili, 44 anni, padre italiano, madre del Madagascar, cresciuto fra Europa e America, non sono solo le sue esperienze passate, dal debutto in “Rise of Empires“, kolossal americano per Netflix, a “Ferrari” di Michael Mann, fino al thriller “Here After” con Connie Britton uscito in Italia quest’estate, bensì le sue ultime partecipazioni come il ruolo di Diocleziano per la serie “The Saints” (I Santi) prodotta da Martin Scorsese in onda su Fox Nation in questi giorni con grande successo in America, e che presto uscirà anche in Europa.
Come è andata questa esperienza?
«La serie si focalizza su otto Santi, otto martiri che attraverso la loro fede e il loro sacrificio, hanno cambiato le sorti dell’umanità, come Giovanna d’Arco o Francesco d’Assisi. Ogni episodio racconta la storia di un Santo, il mio è su San Sebastiano. Interpreto l’imperatore Diocleziano e con Sebastiano siamo inseparabili: è il mio amico, il mio braccio destro, ed è un tribuno dell’impero. Ad un certo punto mi sento minacciato dal dilagare della cristianità e comincio a perseguitare i cristiani, quando scopro che Sebastiano è cristiano, lo prendo come un tradimento, dimentico il legame e lo faccio torturare e trucidare con mille lance fino ad ammazzarlo. Un ruolo difficile sia per la violenza, sia perché ho dovuto affrontare scene con monologhi di 5 minuti».
Il rapporto con Scorsese come è stato?
«Martin Scorsese è direttore artistico, produttore e narratore della serie, ma non compare come regista anche se in realtà non si muoveva una foglia senza un suo ok. Non era fisicamente sulla scena, il set era in Marocco, ma era connesso virtualmente con l’aiuto regista, che girava con questo iPad con la faccia di Scorsese che dava tutte le indicazioni necessarie. Guardava tutti i daily, il girato della giornata, e il giorno dopo ci diceva cosa andava cambiato, cosa bisognava ripetere, e quello che andava bene. Quindi alla fine nessuno faceva nulla senza una sua approvazione».
Un altro incontro speciale è stato quello con Michael Mann per cui ha interpretato Gianni Agnelli in “Ferrari”.
«Altra storia incredibile. Dopo un self-tape che era andato bene mi chiamarono per fare il call back a Roma. Entrai in questa piccola stanza dove trovai Michael Mann in persona, di solito questi provini si fanno con gli aiuti registi. Si presentò e mi disse gentilmente di aspettare un attimo perché l’attore che mi doveva dare le battute era andato in bagno. Dopo qualche minuto entrò Adam Driver, l’attore protagonista. Era lui a darmi le battute fuori campo! Una dimostrazione di grande rispetto e professionalità. Dopo 5 minuti che ero andato via, mi arrivò un’e-mail in cui mi si diceva che Mr. Mann aveva deciso che il ruolo di Gianni Agnelli era mio».
Tante culture diverse fanno parte della sua vita, quanto hanno influito nella sua crescita?
«Da piccolo tutta questa diversità l’ho vissuta male, era un difetto non un pregio. I primi anni della mia vita li ho passati a Milano, poi i miei genitori si sono separati ed io e mio fratello più piccolo abbiamo seguito mia madre in un paesino vicino al lago di Como. Per tutti eravamo quelli di fuori, quelli diversi, i terroni perché papà era di origine marchigiana. In più i miei compagni non riuscivano a capire perché non fossi nero visto che mia madre era del Madagascar, e ogni volta dovevo spiegare che mamma era bianca perché figlia di coloni italiani e francesi. Meno male che i miei da adolescente mi hanno fatto frequentare una scuola internazionale dove erano tutti come me e così il disagio è passato. Questa grande diversità di culture mi ha dato un’identità forte e una grande adattabilità, importante nella vita per sentirsi bene dovunque».
Il primo approccio con questo mestiere?
«È avvenuto in maniera amatoriale a 13-14 anni quando ho messo in piedi con dei miei amici dei musical che realizzavamo nel teatro della scuola. Poi sono andato in collegio in Svizzera e dopo il diploma è cominciato il mio peregrinaggio in giro: sono stato in Spagna, in America, mi sono laureato in Scienze delle comunicazioni e mi sono un po’ perso. Ho lavorato in diverse aziende, ma non ero soddisfatto. A 28 anni, a Milano, ho cominciato a lavorare nella comunicazione di una tv privata, un canale gossip. Facevo di tutto, anche intrattenere gli ospiti prima che entrassero in studio e questo parlare con attori e attrici, mi ha fatto capire che era quella la strada che volevo intraprendere. Stavo vivendo il periodo più brutto della mia vita, mia madre si era ammalata di cancro, mio padre non stava bene, ed è come se tutto quel dolore mi avesse dato la spinta per buttarmi in quello che volevo fare nella vita».
Si è preso del tempo per studiare?
«Ero grande, avevo già quasi 30 anni, non potevo entrare nelle accademie o provare dei corsi di teatro, così sono andato a New York e mi sono iscritto alla Stella Adler Studio of Acting, dove non c’erano limiti di età. Studiare in quella scuola mi ha dato tanta forza, mi ha fatto capire quanto sia serio per gli americani questo mestiere, ma anche quanto sia importante mettersi in gioco».
La sua carriera è incentrata su collaborazioni internazionali ed in lingua inglese, è infatti nella seconda stagione della serie britannica “Karen Pirie”, che sarà disponibile nel 2025 su Amazon Prime.
«Devo essere grato all’Italia perché è il mio essere italiano che mi dà l’accesso a queste grandi produzioni. Quando girai come coprotagonista nel ruolo di Costantino XI la serie americana Netflix sull’impero ottomano, “Rise of Empires”, il regista mi spiegò come ero riuscito ad avere un ruolo così importante pur non essendo conosciuto e senza essere residente a Los Angeles. Mi disse che in America sarei stato uno dei 300mila attori che avrebbero partecipato ai casting. Prima di arrivare a me ci avrebbero messo tantissimo e sarei potuto sfuggire. Al contrario essendo la mia candidatura arrivata dall’Italia, ero uno dei pochi e la mia pronuncia e la mia attitudine hanno colpito subito».