“Il dissidente”, dal creatore di “Icarus” il documentario che nessun streaming service vuole farci vedere
Immaginate. Immaginate di aver pubblicato solo tre anni fa il vostro primo film, uno dei documentari più visti e celebrati di sempre. Immaginate di vincere l’Oscar, il premio della critica e del pubblico al Sundance Film Festival e che il vostro lavoro venga riconosciuto come una delle più grandi inchieste giornalistiche dell’era moderna. Immaginate poi di ripresentarvi a distanza di pochi anni con il vostro nuovo film. Chiudete gli occhi e visualizzate la standing ovation riservatavi dalla folla accorsa alla première. Se vi concentrate, da dietro le quinte, potreste persino scorgere in prima fila una commossa Hillary Clinton e diversi rappresentati delle Nazioni Unite. Tutte le principali testate cinematografiche vi indicano come uno dei migliori film dell’anno, oltre che il miglior film del Festival. Beh, non rimane che mettersi comodi e chiedersi chi tra Netflix, Amazon Prime, Disney e Apple si farà vivo per primo. Invece passano i giorni e… non chiama nessuno. Ecco. Non serve immaginare, è successo davvero.
È infatti questa la storia dell’ultima fatica del premio Oscar Bryan Fogel, “The Dissident”, il documentario che ripercorre gli eventi che due anni fa hanno portato al brutale omicidio del giornalista del Washington Post Jamal Khasoggi, in particolar modo analizzando il diretto coinvolgimento del Principe Saudita Mohammed bin Salman.
Dopo circa 30 anni di stretta collaborazione con la famiglia reale, soffocato dalla pressoché totale assenza di libertà di espressione, Jamal Khasoggi decide di trasferirsi negli Stati Uniti e diventa in breve tempo una delle firme più autorevoli del Washington Post.
Dalle pagine del quotidiano, critica duramente l’operato del Principe, firmando così la propria condanna qualora fosse costretto per qualsiasi motivo a rimettere piede sul territorio saudita.
Alla fine del settembre 2018, in vista delle nozze con la giovane ricercatrice turca, Hatice Cengiz, ha bisogno di ritirare al consolato saudita di Istanbul alcuni documenti necessari per il matrimonio.
Il 2 ottobre del 2018, il giornalista si reca al consolato accompagnato dalla sua fidanzata. Lei aspetta fuori, a conferma di come il giornalista sia consapevole del rischio che sta correndo. Hatice Cengiz aspetterà in lacrime fino all’una di notte. Jamal Khasoggi non uscirà mai più dal consolato saudita.
Le indagini dell’intelligence turca, confermate dai servizi segreti americani, inglesi e francesi, riveleranno in seguito come Jamal Khasoggi fosse stato barbaramente ucciso, fatto a pezzi e bruciato da uomini vicinissimi al Principe Mohammed bin Salman.
Sono passati solo tre anni dalla prima opera del regista americano, “Icarus”, il documentario distribuito da Netflix che aiutò a smascherare forse il più grande scandalo di doping dello sport professionistico. Un’inchiesta talmente ben condotta da spingere il Comitato Olimpico Internazionale a squalificare la Russia dalle prossime due Olimpiadi e a menzionare la pellicola nei documenti ufficiali della sanzione.
Con queste premesse e in presenza di una storia forse ancora più scioccante, era lecito aspettarsi che il suo nuovo film avrebbe suscitato l’interesse di tutte le principali piattaforme streaming. Invece sono passati più di otto mesi prima che una piccola casa indipendente si facesse viva.
Oggi il film, attualmente disponibile solo per il mercato americano, può essere esclusivamente acquistato o noleggiato per una cifra che si aggira intorno ai venti dollari, ma quello che risulta chiaro dalle parole del regista è l’assoluta volontà dei grandi distributori streaming di non rendere questo film parte della loro offerta.
A nulla sono serviti gli incontri nei giorni del trionfo al Sundance Film Festival, la risposta sarebbe stata sempre la stessa: “No, grazie”. Nessuna spiegazione che potesse in qualche modo giustificare questa netta presa di distanze da quello che a tutti gli effetti potrebbe essere il documentario dell’anno. “Sono molto deluso, ma non particolarmente scioccato”, ha dichiarato recentemente Fogel al New York Times. Infatti, già nel 2019, si era capito come Netflix, ad esempio, fosse particolarmente suscettibile alle indicazioni provenienti da Riyadh.
Il comico americano Hasan Minhaj aveva in quei mesi pubblicato un episodio della sua serie (“Patriot act”) in cui accusava il Principe Mohammed di essere il mandante dell’uccisione del noto giornalista. In seguito a forti pressioni, Netflix fu costretta a ritirare l’episodio e il suo CEO, Reed Hastings, si affrettò a precisare come la compagnia non fosse “nel business dell’impegno politico, ma bensì nel business dell’intrattenimento”.
È probabilmente solo una coincidenza che nel novembre del 2019, Netflix abbia siglato un accordo per la produzione di otto film con la casa di produzione saudita Telfaz11. Una serie di pellicole che, si legge, “punta ad aumentare l’appeal dell’Arabia Saudita nel mondo arabo e in tutto il mondo”.
Così come è sicuramente una coincidenza il fatto che uno dei principali distributori americani, AMC, abbia avviato una partnership per la costruzione di diversi cinema in Arabia Saudita, o che il Principe Mohammed e la sua famiglia investano (fonte Business Insider) un numero imprecisato di miliardi in compagnie come Disney e Facebook.
Sarà un puro caso che lo scorso giugno Amazon abbia lanciato la versione saudita del famoso sito di shopping online. Ecco, è proprio il disinteresse di quest’ultima compagnia americana a destare però la maggiore perplessità. Jeff Bezos è infatti il proprietario del Washington Post e la morte di Jamal Khasoggi è quella, a tutti gli effetti, di un suo dipendente.
Non solo, dal documentario si apprende come lo stesso Bezos sia una vittima di questa storia. Un oscuro intreccio tra il Presidente Trump, Principe Mohammed e il magnate americano, che avrebbe portato all’hackeraggio del telefonino di Bezos e alla pubblicazione di diverse foto della relazione extra-coniugale che portò Bezos al famoso divorzio multimilionario. Forse nella speranza che l’imprenditore smettesse di dare tutto quello spazio a quel “rompiscatole” di Khasoggi. La triste conferma, che ai miliardi sauditi è difficile dire di no anche se sei l’uomo più ricco del mondo.
Molti anni fa eravamo convinti che Netflix e internet, ci avrebbe reso più liberi. Un accesso immediato a migliaia di titoli, finalmente liberi dalla censura e dai giochi di potere che da troppo tempo sembravano aver inghiottito la televisione e le vecchie case di produzione cinematografiche. Un’utopia così affascinante da spingerci ad iscriverci ad un pressoché infinito numero di servizi di streaming a pagamento, finendo poi per pagare quasi la stessa cifra che solo pochi anni fa sborsavamo per il tanto bistrattato satellite.
Tutto colpa di quella sciocca illusione che ci ha fatto credere che se ci fossimo iscritti ai vari Netflix, Amazon, Disney, Apple e compagnia, avremmo potuto vedere tutto. O quanto meno tutto quello che valesse la pena di vedere. Invece no. Passano gli anni, cambiano le modalità di fruizione, ma il problema rimane: per certe storie non sembra proprio esserci spazio.
Leggi anche: Bello il documentario di Sfera Ebbasta: peccato si parli di tutto tranne che della strage di Corinaldo