Ho visto al cinema “Lockdown all’italiana”: in sala eravamo in 7 e nessuno ha mai riso una volta
L’avvocato Giovanni (Ezio Greggio) vive a Roma in un appartamento di 350 metri quadrati con la moglie Mariella (Paola Minaccioni), borghese e dedita allo shopping compulsivo. Ma la tradisce con la svaporata cassiera toscana Tamara (Martina Stella), a sua volta sposata con il tassista borgataro Walter (Ricky Memphis). Sia Mariella che Walter scoprono in contemporanea, grazie agli smartphone lasciati incustoditi, il tradimento dei rispettivi coniugi, e sono dolori.
Ora bella/o mia/o te ne vai per sempre di casa! Manco per idea: scatta il lockdown totale del Paese e dobbiamo proseguire forzatamente le nostre infauste convivenze. Per giunta “blindate”, causa virus. Tra mascherine chirurgiche, chiamate Skype con gli amici, bombastiche vicine di pianerottolo che spuntano dal nulla, chat pseudo erotiche e una carrellata neanche esaustiva dei luoghi comuni da forzata clausura che tutti abbiamo vissuto per qualche mese.
Incautamente rubricato come commedia, “Lockdown all’italiana” di Enrico Vanzina è un film drammatico. O meglio, neutro. Nel senso che in 94 minuti non si ride mai. Mai. E nessuna delle sette persone in sala (me compreso) che ha visto il primo spettacolo oggi al debutto, alle 15.15, al Notorious Gloria di Milano, ha mai mosso un muscolo per tentare l’ardita operazione mandibolare.
Si potrà provare a volte un minimo di compassionevole affetto per il cast, abbozzare un cautissimo sorrisino di circostanza. Ma non si ride mai. Mai. A complicare le cose ci sono due-tre brevi tentativi (semi-riuscito quello di Greggio) di nobilitare la pellicola con l’improvviso cambio di registro fra il ponderoso e il drammatico. Per convincere (più che altro se stessi) di essere Dino Risi, Pietro Germi o Mario Monicelli alle prese con l’eredità della grande commedia all’italiana.
Il risultato è un disastro di proporzioni bibliche. Anche perché servirebbe una sceneggiatura vera, dialoghi coi fiocchi, e un parco attoriale che non sia l’hard discount della cinematografia. Girato totalmente in interni (inframmezzando il tutto con qualche panoramica col drone di Roma deserta), “Lockdown all’italiana” potrebbe essere al limite una scarsa pièce teatrale. Invece è diventato inspiegabilmente un film girato con il contributo della Regione Lazio. Che evidentemente non ha modi migliori per spendere i propri soldi.
Il tutto tra battute del calibro di: “Ah signorina, lei di Pescara? Io vado a caccia e ogni tanto a Pescara”. E altre come: “Sta attento perché il virus si deposita sulle superfici, e tu sei superficiale”. L’imbarazzo corre sul filo e raggela la pelle. Per 94, lentissimi, minuti. Si cita il lato B di Diletta Leotta; si mostra (in originale) Barbara D’Urso nell’inconfondibile studio del suo Live su Canale 5; si cita Alberto Sordi; si mostra qualche fotogramma del leggendario “Sapore di mare” per omaggiare Carlo Vanzina e ricordare (arma a doppio taglio) quando i due fratelli i film li sapevano fare davvero. E poi si esce dalla sala nella più totale mestizia. Pensando a una chiosa per questo pezzo che sia almeno degna delle battute appena ascoltate: “Lockdown all’italiana” è un film orrendo, che se non altro ha il pregio di non essere contagioso.
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