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Silvio Soldini racconta a TPI il suo film su “Le assaggiatrici” di Hitler: “La realtà della guerra ha anticipato il cinema”

Immagine di copertina
Il regista Silvio Soldini sul set del suo nuovo film “Le assaggiatrici” con le protagoniste del cast. Credit: Matteo Vegetti / Kinoweb

L'ultimo film del regista, tratto dal romanzo bestseller di Rosella Postorino, racconta la storia vera delle donne che nel 1943 rischiavano la vita al posto del dittatore nazista, che aveva paura di essere avvelenato. "L’immaginazione non doveva andare così lontana", racconta Soldini a TPI. "Con l’aggressione all’Ucraina, non era irreale percepire la violenza, gli echi degli aerei che dovevo far avvertire nel film, mentre giravamo"

Il nuovo film di Silvio Soldini, “Le assaggiatrici, tratto dal romanzo bestseller di Rosella Postorino, che ha aperto il BIF&ST – Bari International Film Festival ed è uscito in sala il 27 marzo, racchiude il meraviglioso sguardo sul mondo femminile a cui il regista milanese ci ha abituato, (“Pane e Tulipani”, “Agata e la Tempesta”, “Il colore nascosto delle cose” , “3/19”) ed è un’altra tappa nella geografia delle sue opere così personali, poetiche e a volte, come lui stesse le definisce, bislacche.

Questa volta al centro c’è la storia reale: siamo in Germania durante la guerra, le assaggiatrici del titolo sono delle giovani donne prelevate da un villaggio vicino Berlino per testare i piatti del Führer nella Tana del Lupo, una base costruita nella foresta della Prussia orientale, per scongiurare qualunque rischio di avvelenamento. Divise tra la paura di morire e la fame, le assaggiatrici stringeranno alleanze, amicizie e patti segreti. Fra loro anche la giovane Rosa (la straordinaria Elisa Schlott), scappata da Berlino e dai bombardamenti per rifugiarsi dai suoceri e aspettare il ritorno del marito dal fronte, che fatica a farsi accettare e che contro ogni razionalità e a dispetto di sé stessa, sentirà in sé risvegliarsi l’amore. La vicenda, che ha ispirato il romanzo di Rosella Pastorino, è una storia vera che venne alla ribalta solo nel 2012 quando Margot Wolk, poco prima di morire a 95 anni, rivelò di essere stata una delle giovani tedesche costrette ad assaggiare i pasti di Hitler, l’unica a sopravvivere alla fine della guerra.

Ma come nasce questa versione de “Le Assaggiatrici”? «C’era già una sceneggiatura (di Cristina Comencini, Giulia Calenda e Ilaria Macchia, ndr) quando mi è stato proposto di subentrare al progetto», ci racconta Silvio Soldini, seduto in un salotto affacciato sul mare, subito dopo la proiezione del film alla stampa insieme a tutto il cast di attrici e attori. «Ma è stata la lettura del romanzo a spronarmi ad accettare questa sfida. La scrittura era molto coinvolgente. Quindi sono ripartito da lì e ho adattato la sceneggiatura esistente insieme a Doriana Leondeff e Lucio Ricca, prendendo fin dalla scrittura una serie di decisioni, pensando già in immagini. È la seconda volta che mi capita di girare un film da un romanzo: il primo (“Brucio nel vento”, ndr) era di Ágota Kristóf, sempre una donna, e sempre in un’altra lingua. Là era il ceco, qui il tedesco, due lingue che non conosco, ma quella era la seconda sfida».

È uno dei pochi registi che riesce sempre a raccontare le donne in tutte le loro sfaccettature. Non c’è un suo personaggio femminile che non sia rimasto nel cuore, qui addirittura ci sono sette donne.
«Infatti, non potevo lasciarmi sfuggire un’occasione del genere. Sette donne con caratteri e storie diverse e con ognuna ho potuto creare una sinergia. Abbiamo fatto tantissime prove per individuare bene ogni personaggio, per capire come metterlo in scena. Un lavoro profondo per dare spessore e profondità, sguardi e dettagli, corpo e movimento, voce e suoni a ognuna di loro. Mi sono visto un po’ come un direttore di una talentuosa orchestra. Tutte quelle prove hanno permesso alle attrici (Elisa Schlott, Alma Hasun, Emma Falck, Olga Von Luckwald, Berit Vander, Kriemhild Hamann, Thea Rasche, ndr) di conoscersi, di diventare amiche, e a me di andare sul set tutte le mattine molto contento».

È stato laborioso trovare le sette attrici?
«Il casting è stato lungo e laborioso. Con la casting director, Laura Muccino, abbiamo fatto una prima selezione partendo dalle fotografie, una seconda attraverso i selftape, e una terza a Berlino dove abbiamo visto veramente tantissime attrici, prima di scegliere. Provini in inglese, in tedesco, non è stato semplice, però mi sono fatto una buona cultura sui giovani talenti tedeschi, che sono veramente tanti».

La guerra si sente vicina con i suoni, gli aerei, ma non si vede. Siamo nel 1943, eppure tutto ciò è molto moderno. Oggi sentiamo gli echi della guerra, la violenza, che non è mai stata così vicina a noi come in questi anni.
«Purtroppo è vero. Tra l’altro la realtà ci ha in qualche modo anticipato, perché alla fine fra scrittura della sceneggiatura, casting, organizzazione, etc., la guerra – con l’aggressione all’Ucraina – si è avvicinata davvero. Non era irreale percepire la violenza, gli echi degli aerei che dovevo far avvertire nel film, mentre giravamo. L’immaginazione non doveva andare così lontana».

Non si fa fatica a pensare che possano esistere degli assaggiatori anche per Putin o Trump. Non trova?
«Assolutamente vero! Nessuna fatica. Per esempio quando Trump subì l’attentato in cui fu ferito all’orecchio, pronunciò una frase quasi identica a quella che si sente nel film e che pronunciò Hitler, dopo il suo attentato: “La provvidenza ha voluto che restassi vivo per continuare il mio progetto politico”».

Dove è stato girato il film?
«Abbiamo girato la maggior parte delle scene in Alto Adige, mentre il romanzo è ambientato nella Prussia orientale, dove non ci sono montagne e non potevamo girarlo lì. Questo perché c’era il grosso problema delle stagioni: la storia inizia nell’autunno del ’43 e finisce a novembre del ’44, bisognava far sentire il passaggio delle stagioni. Abbiamo lavorato tanto col reparto trucco, costumi, sulle scene, anche se spesso chiedevo ai produttori: “Per girare le scene invernali non potete darci due settimane a Natale?” Nessuna risposta».

Dopo tanti anni cosa è, o non è cambiato, nel suo modo di fare cinema?
«Quello che non è cambiato è la voglia di non mollare per fare qualcosa che mi piace davvero. Quello che invece è cambiato è che bisogna correre di più. I film dovrebbero essere sempre più di qualità, ma oltre al budget, che è inferiore rispetto agli anni passati, il tempo per farli è sempre meno. Devi avere un’organizzazione del set perfetta e qualcuno che sappia sempre come ottimizzare il tempo. Non si possono sprecare minuti. Solo che i momenti di attesa per me non sono mai vuoti, è un tempo in cui accade sempre qualcosa, a volte anche di importante che devi avere la possibilità di capire».

Immagino che non la vedremo mai dirigere una serie?
«Non so se fa per me. Ne vedo poche, perché questa mania di rimanere attaccato guardando un episodio dietro l’altro da cui non ci si riesce a staccare, mi disturba. Girare una serie prende tempo: la lavorazione di un film dura otto settimane, per una serie ci vogliono minimo sei mesi ed io al pensiero di lavorare per tanto tempo al ritmo con cui si gira oggi… ecco, non reggerei. Non ce la farei mentalmente e fisicamente».

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