Festival del Cinema di Venezia, Benedetta Argentieri a TPI: “Vi racconto il mio film sulle donne dell’Isis”
“Sono state descritte solo come vittime. Ma spesso hanno giocato un ruolo di primo piano per il Califfato”: la regista del documentario “The Matchmaker”, tra i film Fuori Concorso della 79esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, racconta a TPI come è nato il progetto
Tooba Bashir Gondal ha 28 anni, due figli e tre ex mariti morti tra la Siria e l’Iraq, dove combattevano per il sedicente Stato Islamico, ma non è una vittima. Dopo aver trascorso quattro anni nelle terre occupate dall’Isis, oggi è in carcere in Francia e da due anni in attesa di processo. È sospettata di aver reclutato online almeno una dozzina di combattenti per il gruppo terroristico e la sua storia è al centro del documentario “The Matchmaker”, diretto da Benedetta Argentieri e tra i film Fuori Concorso della 79. Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. «Le donne dell’Isis combattevano, Ak-47 in una mano e i figli nell’altra», ha raccontato ad Argentieri nel 2019 una comandante delle Unità di Difesa delle Donne curde (Ypj) a Baghouz, in Siria, dopo la liberazione dell’ultima roccaforte del sedicente Stato Islamico.
Il filo conduttore del lavoro della regista, non solo in questa pellicola, è il racconto dei diversi ruoli delle donne in guerra, di cui non sempre rimangono vittime, e il caso di Tooba è forse emblematico. «È un personaggio affascinante, con un lato molto dolce – soprattutto con i figli – e diverse facce, che è davvero abile a cambiare», ci racconta Argentieri, che ha intervistato Tooba in un campo di prigionia in Siria raccogliendo oltre sette ore di materiale video. «Come scriveva Hannah Arendt il male è banale, ma nessuno di noi è solo buono o solo cattivo».
Nata a Parigi nel 1994 in una famiglia di origine pakistana, a quattro anni Tooba si trasferisce nel Regno Unito. Qui i Gondal appartengono alla classe media e, parola di Tooba, dal punto di vista religioso sono «mediamente osservanti». È una famiglia integrata: i due fratelli maggiori, lei e la sorella minore studiano e hanno un permesso di residenza permanente in Gran Bretagna. Tooba si iscrive anche all’università dove segue i corsi di lingua e letteratura inglese ma a 21 anni abbandona gli studi per partire per la Siria, dove trascorrerà quasi quattro anni nelle terre occupate dall’Isis. Non è una scelta presa d’impulso, due anni prima di lasciare il Regno Unito comincia a interessarsi alla religione, indossa per la prima volta l’hijab. «Prima ero in cerca della felicità», ha raccontato Tooba ad Argentieri. «Ho provato di tutto: andare in discoteca, fumare, bere, avere un ragazzo, farmi un piercing o seguire la musica, ma non ero felice. Alla fine ho trovato la felicità, pregando».
In questo periodo trova anche qualcos’altro: comincia a seguire profili Twitter vicini all’integralismo ed entra in contatto con l’uomo che diventerà il suo primo marito e che la aiuterà a raggiungere la Siria. Nasce anche il suo alter ego sui social, dove in tre anni gestirà oltre 40 profili diversi, tutti riconducibili al nickname “Umm Muthanna” (il cui significato, lei stessa non sa spiegare) che rilanciava la propaganda dell’Isis ed esultava per gli attentati di Parigi. «All’epoca dell’intervista ancora non lo sapevo ma da quanto ho appreso, le autorità britanniche sospettano che sia coinvolta nel reclutamento di almeno una dozzina di persone», ci racconta Argentieri.
Un’accusa sempre respinta da Tooba, che all’epoca dell’intervista si presenta come “Umm Ibrahim”, ossia la madre di Ibrahim, il suo primogenito. È una ragazza affettuosa, intelligente e disponibile che cerca di sfruttare il film per difendersi dai sospetti delle autorità di Regno Unito e Francia, dove sarà estradata nel 2020. «È una narrazione portata avanti da molte donne dell’Isis», ci spiega la regista. «Si difendono sostenendo di non aver fatto niente: “Ho solo seguito mio marito”, dicono. Una linea difensiva basata su una visione vittimistica adottata anche dai media mainstream. Conosco donne che sono state veramente vittime dell’Isis e Tooba non è tra queste: lei ha fatto una scelta».
La sua vita nelle terre del sedicente Califfato lo testimonia: Gondal si è sposata tre volte in meno di quattro anni. Il primo marito, che l’ha aiutata ad arrivare in Siria, è morto sei mesi dopo le nozze in uno scontro armato. Il secondo, da cui ha avuto il suo primogenito Ibrahim e con cui ha divorziato, si è fatto esplodere in un attacco suicida a Mosul a un mese e mezzo dal matrimonio. L’ultimo, il padre di sua figlia Asya, è invece rimasto ucciso in un raid aereo dopo appena dieci mesi che erano sposati.
Tra un matrimonio e l’altro, Tooba ha goduto di una libertà inimmaginabile sotto l’Isis: «Avevo una mia macchina, uscivo da sola e vivevo con i miei figli», ha raccontato ad Argentieri, che sottolinea il ruolo giocato da Gondal nell’Isis. «Il suo primo marito era un emiro e il terzo non era certo l’ultimo arrivato visto che è stato ucciso da un drone e le ha lasciato anche tantissimi soldi», ci spiega la giornalista. «Tutto questo non si accompagna alla narrazione della donna oppressa, anzi mostra come in generale lo Stato Islamico sia molto diverso per esempio dai Talebani, che obbligano le donne a restare in casa e a non partecipare alle attività del gruppo. L’Isis non era e non è così e credo che questo genere di politica sia stata adottata volutamente anche per attrarre il maggior numero di persone, soprattutto dall’estero e di entrambi i sessi».
Argentieri parla al presente dell’Isis perché, ci spiega, pur sconfitto ancora resiste soprattutto nei campi di prigionia. «Soltanto nel campo di al-Hawl, gestito dall’Amministrazione autonoma della Siria settentrionale e orientale guidata dai curdi-siriani, ci sono 55mila familiari dell’Isis, compresi 10mila tra donne e minori stranieri», sottolinea la regista. «Tantissimi stranieri, molti anche con cittadinanza di Paesi occidentali, non vengono rimpatriati, in primis perché gli Stati non sanno cosa farne». L’amministrazione curda e una proposta dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa promuovono l’istituzione di un tribunale internazionale. «Ma tale procedura presupporrebbe un riconoscimento formale del Rojava, a cui il regime siriano e i suoi alleati si oppongono», ci spiega Argentieri.
Eppure la presenza dell’Isis in Siria si fa ancora sentire. Soltanto a fine agosto, le Forze democratiche siriane hanno fatto irruzione in vari campi di prigionia arrestando decine di persone, spesso donne, accusate di fare proselitismo e di atti di violenza contro chi non segue le regole del gruppo. «Nei campi si consumano molti omicidi, tanto che l’allarme è stato lanciato persino dall’Onu», rimarca la regista, secondo cui in questi luoghi non ci sono solo donne ma anche tante famiglie siriane e irachene sfollate dalle zone una volta occupate dall’Isis. «Sappiamo di uomini usati per restare incinta e poi uccisi o di madri che ancora indottrinano i figli all’ideologia del Califfato». Altro, che vittime.