“Berlinguer – La grande ambizione” di Andrea Segre ed Elio Germano è l’affresco di un’epoca di cui avevamo bisogno
È tutto molto chiaro fin dai primi minuti di “Berlinguer – La grande ambizione”, l’ultima creazione di Andrea Segre, con uno splendido Elio Germano nei panni del più grande segretario del Partito Comunista Italiano dopo Togliatti. È chiaro da subito, si inizia con l’attentato a Berlinguer a Sofia nel 1973, come non si tratti di un’opera biografica né di alcuna lettura psicologica del personaggio, come l’intento del regista sia di ritagliare un estratto di storia e offrirla come affresco di un’epoca.
Il realismo emerge dalle scelte stilistiche, dall’adozione di frequenti immagini di repertorio, vedi l’architettura costruttivista della Bulgaria anni ’70, le immagini corali delle masse nei comizi, o delle lotte extraparlamentari nelle strade, a una fotografia il più possibile cruda, priva di artifici e di riletture estetiche. È evidente come l’intento sia quello di restituire il “qui ed ora” di un momento cruciale della storia, non solo italiana, nel XX secolo. Un punto cardine per l’Italia repubblicana e per molti aspetti dell’intero Occidente.
Siamo in quel sottile passaggio storico, in cui si fa largo un progressivo abbandono dell’idea sociale a favore di un lento e inesorabile avvento dell’individualismo, l’inizio di una mutazione del pensiero liberale in liberismo, che segnerà la fine del comunismo in Occidente e la mutazione radicale del socialismo in “blairismo”.
Marco Pettenello e Andrea Segre, co-autori della sceneggiatura, tracciano nel film una narrazione per tappe, di quella dottrina politica, la grande ambizione appunto, passata alla storia come “compromesso storico”; un dialogo aperto, voluto, promosso e perseguito da Enrico Berlinguer.
Una politica del dialogo e della distensione tra Pci e Dc, inviso all’Unione sovietica di Brežnev che ha rappresentato l’avanguardia del comunismo europeo e che proprio in Italia ha trovato la sua espressione più ampia nel più grande Partito comunista dell’Occidente, quando a votare per il Pci era un italiano su tre. Un’idea rivoluzionaria, tanto ragionevole e moderata quanto ambiziosa, sostenuta da un altro grande statista italiano: Aldo Moro.
Tra feste dell’Unità, comizi nelle fabbriche e nelle sedi fumose di via delle Botteghe Oscure, le immagini mostrano una politica ormai lontana, fatta ancora di ideali e visioni. Un film che rappresenta la collettività , guardandosi bene dall’entrare nei palazzi del potere, distante dalla lettura dei grandi personaggi della storia politica italiana come “Il divo” (Sorrentino 2008) o “Il caimano” (Moretti 2006), letture personali degli autori centrate nel rapporto tra io e potere, e più vicino invece a “Il caso Mattei” (Rosi 72) affresco, tramite il personaggio, di un periodo storico.
Mentre scorrono le immagini della politica italiana degli anni ’70, che Elio Petri rappresentò in “Todo modo” in un affresco surrealista dello sfascio ideologico della Democrazia Cristiana, il Berlinguer di Elio Germano, richiama costantemente il concetto di “unione delle masse popolari”, evidenziando l’ambizione di restituire al corpo elettorale un ruolo attivo, nel cambiamento epocale che lui aveva disegnato per l’Italia e forse per l’intera Europa. Un Berlinguer costantemente preoccupato e consapevole dei rischi che un governo comunista avrebbe rappresentato per l’Italia, avveduto interprete della storia e promotore del dialogo quale unico modo per superare la cortina di ferro di cui l’Europa è stata vittima sacrificale.
Il film evidenzia con chiarezza il punto di vista del regista e dello sceneggiatore, nonché dell’attore principale, Elio Germano, sul sabotaggio del progetto Berlinguer/Moro a cura dei servizi segreti. Non viene mai detto né sottolineato né accennato, ma sono le immagini e i non detti a parlare, di una sorta di “colpo di Stato bianco”, dove si allude alla possibilità che l’assassinio di Moro, orchestrato per fermare il compromesso storico, abbia coinvolto i servizi segreti forse anche di più Paesi, preoccupati dall’effetto domino che la politica italiana avrebbe potuto innescare in Europa e in Occidente. Il compromesso era infatti inviso sia agli Stati Uniti che all’Unione sovietica, in un periodo che avrebbe visto l’avvento del liberismo di Thatcher e Reagan, la fine dell’Unione Sovietica e quel grande periodo che Francis Fukuyama definì “La fine della storia”.
Il regista Andrea Segre, nato nel documentario, già capace di notevoli pagine cinematografiche “Il sangue verde”, “Mare chiuso”, fino alla splendida opera anti-modernista “Welcome Venice” girato un una Venezia incantata durante il Covid firma un’opera importante per il cinema italiano destinata a contribuire alla storicizzazione del personaggio di Enrico Berlinguer.
In generale guardando dietro le quinte, con Pettenello come sceneggiatore, Iosonouncane alle musiche e lo stesso Segre, la sensazione è quella di un cinema indipendente (e forse militante) che si affaccia al grande schermo del mainstream con un’opera che riguarda tutti, contribuendo al dibattito sull’egemonia culturale nel paese, e forse ridando dignità a un concetto spesso abusato dal giornalismo e dalle tv, al punto di diventare vuoto.
Un film necessario, come sottolineato da Gianluca Farinelli, che ha promosso la seconda proiezione nazionale al cinema modernissimo di Bologna, sottolineando come mancasse un’opera su Berlinguer, non realizzata dai grandi registi della sua epoca, ma ora portata sullo schermo da una generazione di cineasti che, ai tempi, erano poco meno che adolescenti. È un’opera importante soprattutto per le nuove generazioni, che racconta uno spaccato della politica del paese non ancora del tutto storicizzato, in cui restano zone d’ombra e interpretazioni incerte, che Segre e questo film offrono a un pubblico potenzialmente affamato di conoscenza.