“Mentre recitavo avrei voluto urlare ‘aiuto’ al posto di Cucchi”, parla l’attore Alessandro Borghi del film “Sulla mia pelle”
Gli attori e il regista raccontano il film "Sulla mia pelle" presentato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia
Il film “Sulla mia pelle” di Alessandro Cremonini racconta la storia degli ultimi sette giorni di vita di Stefano Cucchi, il geometra romano morto il 22 ottobre 2009 dopo essere stato arrestato per detenzione di stupefacenti.
La storia di Stefano Cucchi è probabilmente la più nota tra quelle riguardanti i presunti abusi delle forze dell’ordine in carcere, grazie alla battaglia portata avanti dalla sorella Ilaria (TPI l’ha intervistata qui).
“Sulla mia pelle” prodotto da Netflix, spicca nella programmazione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia (qui tutti i film in concorso) e ha inaugurato la sezione Orizzonti del Festival di Venezia 2018.
Il film uscirà il 12 settembre in contemporanea sulla piattaforma Netflix e al cinema per Lucky Red.
TPI ha ricostruito la storia giudiziaria della morte di Stefano Cucchi, attraverso il commento di Fabio Anselmo, il legale che segue la vicenda da sempre.
Gli attori protagonisti sono Alessandro Borghi, che interpreta Stefano Cucchi e Jasmine Trinca nei panni della sorella Ilaria.
“È una storia che chiama alla responsabilità”, spiega l’attrice. “È un atto dovuto”.
La Trinca e Ilaria Cucchi si erano già conosciute in occasione di uno spettacolo organizzato in memoria di Stefano: “Attraverso lei, una sorella molto severa ma che nella severità nascondeva un grande amore nei confronti del fratello ho voluto interpretare al meglio, raccontandola, una vicenda privata ma paradigmatica per ognuno di noi, la storia di uno ma anche la storia di mille”.
Alessandro Borghi racconta che: “La cosa che mi ha sconvolto di più, oltre all’aver perso 18 chili per calarmi nella parte, è stata l’assenza della magistratura, il far finta di non capire, la voglia di Stefano di non dire la verità e di non denunciare nulla”.
“La sua omertà deriva da una forma mentis della borgata: non si parla, non si fa la spia quando ci sono di mezzo le guardie perché se parlo, come dice lui nel film a un medico, quelli per dieci anni mi fanno le carte”, dice borghi nell’intervista.
“Considerate lo shock che ha dovuto subire quel ragazzo e alla paura di dover condividere la vergogna di essere stato pestato: non è che non parlava, si nascondeva, sottovalutando il suo stato e non ascoltando affatto il suo corpo”.
“Mentre giravamo e ripetevo le battute ho pensato spesso a tutto questo e al fatto che Cucchi non abbia parlato perché era convinto di farlo una volta fuori dal carcere, ma più volte volevo strillare “aiuto” io al suo posto”.
“Assumersi una responsabilità non è di moda in questo Paese”, aggiunge l’attore, “succede con tutti, anche in un condominio, figuriamoci con i migranti. C’è la tendenza a occuparsi solo delle cose proprie, ma per fortuna ci sono tante persone che fanno molto per gli altri”.
Il regista Alessandro Cremonini ha definito il caso Cucchi “un omicidio di Stato” e ha raccontato che “per girare il film nessuno dei carabinieri ci ha dato nulla e abbiamo dovuto ricostruire tutto, non ci hanno dato i permessi, nemmeno per girare fuori il carcere di Regina Coeli”.
“Le violenze che accadono ogni giorno nelle carceri non si giustificano, ma spesso ci si dimentica delle difficili condizioni in cui versano quelle strutture e in cui lavorano migliaia di persone, bisogna intervenire subito”.
Tutte le date del Caso Cucchi
• 15 ottobre 2009. Stefano Cucchi, 31 anni, è arrestato dai carabinieri nel parco degli Acquedotti. L’uomo è stato trovato in possesso di 20 grammi di hashish e di alcune pastiglie.
• Stefano Cucchi lavorava come ragioniere nello studio di famiglia, a Roma, nel quartiere Casilino.
• 22 ottobre 2009. Stefano viene trovato morto in una stanza all’interno del reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, dove era ricoverato da quattro giorni.
• Il 31enne pesava 27 chili. Secondo i risultati dell’autopsia Stefano è morto alle tre del mattino.
• Marzo 2011. Comincia il processo di primo grado. Viene chiesto il rinvio a giudizio per 13 persone: tre infermieri, sei medici, tre agenti di polizia penitenziaria e Claudio Marchiandi, direttore dell’ufficio detenuti.
• Marchiandi, che aveva chiesto il rito abbreviato, viene rinviato a giudizio. È condannato a due anni per i reati di favoreggiamento, falso e abuso in atti d’ufficio per poi essere assolto in secondo grado ad aprile 2012.
• Per i medici le accuse sono di falso ideologico, abuso d’ufficio, abbandono di persona incapace al rifiuto in atti d’ufficio, favoreggiamento, omissione di referto. I poliziotti sono accusati di lesioni aggravate e abuso di autorità.
• 5 giugno 2013. Dopo tre anni di processo, è ufficializzata la sentenza di primo grado: assoluzione per gli agenti penitenziari e per gli infermieri coinvolti. Condannati i medici del Pertini per omicidio colposo.
• 31 ottobre 2014. Tutti gli imputati sono assolti nel processo d’appello per insufficienza di prove. La decisione è dibattuta e contrastata per le alternative che avrebbero potuto adottare i giudici. “Un’assoluzione per assenza di prove”, chiariva Luciano Panzani, presidente della Corte d’appello di Roma, sottolineando che “non c’erano elementi sufficienti per ritenere gli imputati colpevoli di un reato, che però c’è stato”.
• Gennaio 2015. I giudici della Corte d’appello di Roma depositano le motivazioni della loro sentenza, ma sostengono la possibilità di svolgere nuove indagini.
• Marzo del 2015. I legali della famiglia Cucchi e la procura di Roma depositano il ricorso in Cassazione contro la sentenza dell’ottobre 2014.
• Dicembre 2015. La Cassazione accoglie il ricorso, annulla le assoluzioni dei medici ma conferma quelle dei tre agenti di polizia penitenziaria. La procura di Roma avvia una nuova indagine. Viene chiesta una nuova perizia medico legale per stabilire se Stefano abbia subito percosse dai carabinieri e se siano state poste le condizioni per una “corretta ricostruzione dei fatti”.
• “Quell’episodio è un momento di vergogna incredibile per il nostro paese, ma anche per le stesse istituzioni”, ricorda l’avvocato Anselmo. “Da quel momento siamo ripartiti a testa alta. Abbiamo avuto la fortuna di trovare due testimoni e di mostrare che hanno nascosto verità evidenti”.
• Aprile 2016. Ilaria Cucchi lancia la petizione per chiedere che il parlamento e il governo approvino il reato di tortura in Italia. La petizione ottiene oltre 200mila firme in pochi giorni.
• “L’Italia ha prima di tutto bisogno di una crescita culturale oltre che di una legge sulla tortura”, commenta l’avvocato Anselmo. “Una legge di questo tipo lascia freddi gli italiani, la consapevolezza necessaria riguarda il rispetto fondamentale dell’essere umano. In Italia il sistema di comunicazione è fallimentare, definisce la famiglia Cucchi e noi legali il partito dell’antipolizia, quando chi rispetta le istituzioni e la polizia sono proprio queste famiglie. Vi è un sistema di scarsissima sensibilizzazione popolare per quello che è il tema delle condizioni di vita dei detenuti nelle nostre carceri. C’è bisogno di crescita e di conoscere, perché i casi Cucchi e Aldrovandi ci hanno dimostrato che può succedere a chiunque”.
• Ottobre 2016. I periti nominati dal gip Elvira Tamburelli sostengono che la morte di Cucchi sia stata “causata da un’epilessia in un uomo con patologia epilettica di durata pluriennale, in trattamento con farmaci anti epilettici”.
• Gennaio 2017. La procura di Roma chiede il processo con nuovi capi d’accusa a carico dei tre carabinieri: Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, che devono rispondere di omicidio preterintenzionale pluriaggravato dai futili motivi e dalla minorata difesa della vittima, abuso di autorità contro arrestati, falso ideologico in atto pubblico, calunnia.
• “Ricordo perfettamente la fatica, in senso egoistico, di partire da Ferrara e andare a fare un processo il cui esito era già perfettamente noto”, racconta il legame Anselmo, dopo che sono trascorsi sette anni dall’inizio dei processi. “Ricordo gli insulti subiti da questa famiglia, è stata una maratona incredibile. È stata una delle prove più dure della mia carriera professionale. Seguire sette anni di processo sapendo che avremmo dovuto perderlo perché non volevamo barattare una mezza verità. Le mezze verità a noi non servono. Abbiamo lavorato per rovesciare il caso, per impedire che ci fosse dato un contentino”.
• Febbraio 2017. La procura di Roma chiede il rinvio a giudizio di cinque carabinieri. Per tre di loro l’accusa è di omicidio preterintenzionale. Ad altri due carabinieri sono stati contestati i reati di calunnia e falso.