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Una breve riflessione sul giornalismo in Italia dopo la morte di Giulio Regeni

Immagine di copertina

Sei anni fa ero al Cairo. Inviai un articolo al Riformista. Il mio redattore capo decise di cancellare una riga dal mio pezzo. Oggi quel gesto assume un importante valore

Era il 20 dicembre del 2010 quando ricevetti questa mail. Il Cairo era ancora un dinosauro addormentato nelle mani di Mubarak. E io ero a pochi metri dall’ancora sconosciuta Piazza Tahrir, sulla mia scrivania del Cedej, il centro di ricerca francese che mi ospitava.

Avevo mandato al giornale con il quale avevo iniziato a collaborare un pezzo sull’organizzazione di alcune assemblee sindacali. Ero andata a seguirla e mi sembrava interessante raccontare che cosa era emerso.

“Fa capire che cosa bolle in pentola in Egitto.” Ricordo di aver detto qualcosa di simile al mio caporedattore dell’epoca che mi disse di scrivere e quando ricevette il pezzo mi inviò il seguente messaggio.

Posso copiarlo, a conferma della sua veridicità. Tolgo il nome, ma lascio il dominio tanto non esiste più perché il giornale in questione è fallito qualche anno dopo.

Da: <…..@ilriformista.it>

Date: 20 dicembre 2010 18:55

Oggetto: Re: articolo oggi

A: “Azzurra Meringolo”

Azzurra, ti ho modificato la frase sui sindacalisti
Diventa
“il regime contiene i manifestanti a sostegno dei sindacalisti del settore tessile con tutti gli strumenti a sua disposizione.”
Tolgo che “li pesta e li tortura con metodi sconosciuti a noi occidentali come confermato da fonti locali.”

Altrimenti tu non torni a casa intera…

Questo messaggio l’avevo quasi cancellato dalla mia memoria, ma oggi, passando in rassegna quanto è stato scritto e detto sulla vicenda di Giulio Regeni, sentendomi in qualche istante persino imbarazzata della categoria professionale alla quale appartengo, mi è tornato in mente.

Non mi ricordo come lo percepii all’epoca, ancora a digiuno da scontri di strada, intimidazioni e controlli. Riletto oggi, però, quel messaggio acquisisce valore.

Non solo perché in un giorno in cui una preziosa fonte giornalistica è scomparsa, rileggere queste righe ti fa sentire, come fonte, protetta e quindi trattata come essere umano ancora prima che come giornalista.

Ma anche perché ti fa capire che un altro modo di fare giornalismo è possibile. Certo non è il giornalismo da strilloni. Non è quello che si impone con scoop più o meno veri. Quello che cavalca ogni notizia a prescindere dalle conseguenze che questo comporta.

È il giornalismo che programma ancora su carta, quello che investe sulle idee e sul futuro, quello più complesso, meno mai stream, ma – alla fine – più sostanzioso.

Quello che verifica la qualifica che un collaboratore aggiunge alla sua firma e si accerta della veridicità dei suoi contenuti.

Quello che ascolta il collaboratore, ma non asseconda il suo stato d’animo. Mai. Quello che evita scivoloni e si preoccupa dei propri lettori.

Perché troppo spesso noi giornalisti ci scordiamo che anche i lettori hanno diritto a non essere presi in giro, a non perdere tempo con le false verità di cui riempiamo i nostri timoni.

Cinque anni dopo, dico ufficialmente grazie a quel caporedattore. Grazie di avermi protetta. Grazie di essersi fermato a riflettere sulle parole ricevute.

Grazie di aver avuto l’accortezza e la pazienza di mandare ai lettori il mio messaggio utilizzando un linguaggio che non mi ha esposto a veloci bruciature.

Grazie insomma, di non aver messo la mia vita davanti alle necessità redazionali.

Dopo la notizia della morte di Giulio Regeni, il quotidiano italiano il Manifesto ha deciso di pubblicare un suo articolo, a suo nome

—– LEGGI ANCHE: Giulio Regeni era un ragazzo italiano di 28 anni, trovato morto al Cairo in circostanze sospette. Sul suo corpo sono visibili segni di tortura. Ma le versioni sulla sua morte sono discordanti. Abbiamo messo in ordine i fatti per fare chiarezza.

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