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Taksim non è Tahrir

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Affinità e divergenze tra le piazze e quello che raccontano di Turchia ed Egitto

I confronti si evocavano anche prima del “No-Morsi day” di domenica scorsa, prima del golpe egiziano – come chiamarlo, sennò – che è intervenuto su una democrazia ancora troppo fragile, destituendo un presidente democraticamente eletto ma che democraticamente non ha governato. L’affinità con gli eventi che da più di un mese agitano la Turchia è suggestiva e pericolosa.

Intanto, perché simile è la critica rivolta a Tayyip Erdoğan, o per lo meno alle stagioni più recenti della sua decennale esperienza da primo ministro. Tre volte scelto da una maggioranza sempre più nutrita di turchi – l’ultima appena due anni fa – Erdoğan è apparso ogni giorni di più solo il premier di chi lo ha eletto (e delle grandi lobby finanziarie). Ma la Turchia non è l’Egitto, e i turchi non sono arabi. A piazza ancora occupata, l’aveva detto il nostro ministro degli Esteri, Emma Bonino: Taksim non è Tahrir. Parole semplici ma chiare, utili a suggerire almeno cosa non aspettarsi dalla protesta nata al parco Gezi di Istanbul.

Nella Turchia che pure in mezzo secolo ha vissuto quattro colpi di Stato conclamati l’esercito – il secondo della Nato per numero di effettivi – ha perso una grossa fetta del suo potere proprio sotto il governo Erdoğan, durante il quale un generale su cinque è finito in galera con l’accusa di volerlo rovesciare. L’effetto è che oggi i militari, quando forse avrebbero voluto, non possono.

C’è di più, ovviamente. L’architettura istituzionale della Turchia, come pure la sua travagliata ma intensa storia democratica, sono altro rispetto all’Egitto e al Medio Oriente tutto. Un unicum tra i Paesi musulmani. Con tutti i suoi limiti: sindacati addomesticati dal governo e sindacati combattivi; giornalisti censurati (o che si autocensurano) e giornalisti campioni della libera parola; giudici asserviti al potere a fianco di giudici indipendenti. Come quelli che, per ora, hanno bocciato il tentativo di distruzione del parco Gezi.

Ma c’è un altro rischio nascosto dietro gli eventi di questi giorni; o meglio, dietro la nostra affannosa interpretazione: che della Turchia che ha aperto i tg per giorni (persino non consecutivi) ci si dimentichi con la stessa fretta con cui l’Egitto scivolerà veloce nelle homepage dei quotidiani online. Perché al di là delle notizie, delle novità appunto, è spesso il contesto quello che manca nel nostro sguardo agli altri, sacrificato sull’altare di gerarchie comunicative tanto dubbie quanto non dubitate.

Così, improvvisamente, si smette di parlare di Turchia, come se d’un tratto tutto fosse risolto, “in ordine”, e si salta in Egitto, per spiegare tra qualche giorno che dall’inizio del conflitto in Siria i morti sono più di centomila e poi, per un paio d’ore, che le cose in Nigeria o ad Haiti non vanno benissimo. Fino magari a non ricordarsi più se quella di Istanbul è Taksim o Tahrir.

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