Strage di ultrà
Oltre gli spalti insanguinati sempre meno spazio pubblico
Ancora sangue, ancora scontri e violenze. A tre anni dai terribili incidenti nello stadio di Port Said – che causarono 74 vittime – domenica, gli ultrà egiziani sono tornati protagonisti dell’ennesima battaglia con le forze di polizia. Una trentina i morti e altrettanti i feriti della violenza scoppiata ancora prima del fischio di inizio della partita Zamalek-Enppi.
Secondo la versione del Ministro degli Interni, a provocare gli scontri sarebbero stati gli Ultras White Knights, i tifosi dello Zamalek che avrebbero cercato di forzare l’entrata nello stadio senza avere il biglietto in mano. Diversa la versione della tifoseria: “Stavamo aspettando di fronte allo stretto cancello di ingresso quando le forze dell’ordine hanno iniziato a lanciare contro di noi lacrimogeni” spiega un sopravvissuto, raccontando la morte dei suoi compagni nella calca generata dai disordini.
Mentre il governo egiziano si mostra intenzionato a fare luce sui fatti e la procura generale del Cairo apre un’inchiesta, è utile ricordare che quello di ieri è solo l’ultimo di una lunga storia di scontri tra ultrà e polizia egiziana. Un atto di violenza che ha sconvolto – per l’ennesima volta – il “nuovo” Egitto dell’ex general Abdel Fattah Al-Sisi, l’attuale presidente che da mesi restringe lo spazio pubblico egiziano, mettendo nell’angolo i giovani che solo tre anni fa sono insorti contro Hosni Mubarak.
Gli ultrà hanno giocato un ruolo molto importante nella organizzazione delle manifestazioni confluite nella rivoluzione di piazza Tahrir. Il loro attivismo non si è calmato neanche dopo l’uscita di scena del vecchio dittatore. Anzi, hanno manifestato contro la giunta militare che ha gestito la transizione, contro gli islamisti che hanno vinto le prime elezioni libere del post-Mubarak e anche contro alcune decisioni di Al-Sisi.
Ecco perché coloro che si sono alternati al potere hanno cercato di metter loro i bastoni tra le ruote. Dopo la strage di Port Said, le autorità hanno sospeso per quasi due anni il campionato (ripreso nel dicembre 2013), hanno impedito alle tifoserie più calde di sedere sugli spalti (quella di domenica era la prima partita della Premier League egiziana aperta ai tifosi dopo la strage di Port Said), hanno assolto molti dei poliziotti coinvolti nella strage di Port Said – condannando però a morte 21 tifosi della squadra locale – e hanno cercato di mettere fuori legge gli ultrà.
Gli Ultras White Knights se la sono dovuta vedere anche con la società calcistica per cui questi patteggiano e che li rinnega. Il presidente della squadra, Mortada Mansour, propone da mesi di bandire gli ultrà per legge perché – dice – “sono elemento destabilizzante”. Mansour del resto non è un presidente qualsiasi. È definito dalla sua curva un fulul – un rimasuglio del vecchio regime ritenuto un ingranaggio del sistema dittatoriale, che invece di sparire si è rinnovato – che per dimostrare la sua lealtà ad Al-Sisi ha deciso di ritirare la sua candidatura alle precedenti presidenziali. All’origine degli incidenti di domenica ci sarebbe, secondo i tifosi, anche il suo zampino. Giovedì scorso, Mansour avrebbe infatti ristretto il numero dei biglietti in vendita ai tifosi, dimezzando le loro possibilità di partecipare a un evento che era attesissimo. Facendo il tour dei canali pro regime dopo lo scoppio degli scontri, Mansour ha cercato di difendersi, additando i tifosi come unici responsabili e accusandoli di ospitare nelle loro fila affiliati della Fratellanza Musulmana, la confraternita nuovamente bandita.
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