Smetto quando voglio
L'Italia precaria tra crimine e parodia
Smetto quando voglio, film d’esordio di Sydney Sibilia, nel primo fine settimana di programmazione ha incassato quasi un milione di euro, classificandosi al quarto posto dopo Belle & Sebastien, The Wolf of Wall Street e Tutta colpa di Freud. È una commedia, ma non una commedia all’italiana, e ciò non è poco. Ispirata ai drugs-movie americani, presenta un’ironia dai toni feroci sulla condizione precaria in Italia. Un ricercatore universitario in biologia, Pietro Zinni (Edoardo Leo), mira a un meritatissimo contratto a tempo indeterminato, ma, nonostante il professore da cui dipende sia ammanicato con la politica, presto Pietro viene fatto fuori. Impartisce lezioni private a studenti medi che non lo pagano. Nel mentre deve affrontare le costanti pressioni economiche della sua compagna psicologa (Valeria Solarino), che lavora nelle comunità di recupero per tossicodipendenti.
Nel pieno della crisi, in una concatenazione di comicissime causalità, Pietro finisce in discoteca mentre insegue uno degli allievi che gli deve dei soldi e invece gli fa bere un cocktail con l’MDMA giurando, visto il costo della sostanza, di essersi sdebitato. È qui che comincia a balenare l’idea che l’unico modo possibile per rimettersi in sesto, date anche le competenze neurobiologiche, è quella di sintetizzare una smart-drug più potente dell’extasy. Le smart-drugs sarebbero quelle sostanze al limite della legalità, la cui molecola non è nota alle autorità e quindi non ancora proibita. Pietro mette su una banda di ex ricercatori universitari tra cui il chimico (Stefano Fresi), finito a fare il lavapiatti in un ristorante cinese, i latinisti (Valerio Aprea e Lorenzo Lavia), benzinai comandati da bengalesi, l’antropologo (Pietro Sermonti), che lavora come trivellatore in siti autostradali, l’economista (Libero De Rienzo), finito a giocarsi la vita a poker e inseguito per i debiti da un gruppo di gitani del cui boss si è impegnato a sposare la figlia. Comincia una vera e propria escalation di scene che avrebbero del paradossale se non fossero ambientate nell’odierna Italia. Dal lusso sfrenato del primo boom della nuova sostanza da sballo, allo scontro con il pusher (Neri Marcorè) che prima di loro gestiva lo spaccio negli stessi luoghi.
L’amara parodia rende realisticamente giustizia a un collasso sociale, in cui gli intellettuali di una volta prendono il posto del sottoproletariato, diventando non solo i nuovi poveri ma anche e soprattutto i nuovi emarginati. Cosa può fare della propria vita un intellettuale senza arte né parte? Uno che non sa sporcarsi le mani ma non ha le risorse sufficienti per non sporcarsele davvero? Chi sarà disposto a offrirgli un posto di lavoro? È certo più facile assumere come meccanico un ex criminale che un ex ricercatore. Persone che hanno costruito duramente negli anni null’altro che un enorme castello di sabbia che proprio al culmine crolla. Il sarcasmo, la feroce e pungente ironia, non sono slegate quindi dalla verosimiglianza con il mondo che ci troviamo ad abitare.
Dal punto di vista strutturale il film è ben costruito, solo nel finale risolve un po’ troppo facilmente i conflitti ma nel complesso si esce dalla sala con un misto di riso, per la brillantezza dell’opera, e di amarezza, per la sua veridicità pienamente consapevole dell’odierno zeitgeist. L’audace fotografia fa costante uso di filtri rossi e verdi, accentuando in tal mondo l’elemento allucinatorio e la paradossalità delle scene. Le esagerazioni grottesche, ispirate al cinema americano, sono qui ben rappresentate e illuminano le possibilità di un presente che volge all’implosione. Il crimine, quale unica via possibile di salvezza, è ora realtà.
di Ilaria Palomba