Sin City, una donna per cui uccidere
la parodia di se stesso
Il ritorno di Robert Rodriguez e Frank Miller a Sin City (2005) era annunciato da tempo.
Il primo deve la propria carrera cinematografica al western autoprodotto (El Mariachi) che gli ha spalancato le porte delle major di Hollywood. Miller, invece, è autore di serie a fumetti come Batman, 300 e Sin City. Rodriguez è stato capace a sviluppare la propria carriera attorno alla preziosa collaborazione con Quentin Tarantino (Dal tramonto all’alba; Grindhouse), talvolta rimanendo fedele al proprio cinema, altre volte lavorando a produzioni commerciali per famiglie. Miller, dopo la disastrosa trasposizione di The Spirit (2008) di Will Eisner, non poteva che tornare a collaborare con il regista texano.
Sin City – Una donna per cui uccidere è un’opera fuori tempo massimo. Lo stile monocromatico, che aveva avuto una resa ottima all’uscita del primo film, ricreando l’estetica del fumetto, in questo caso è vittima di sè stesso. Incapace di stupire e ridotto ad una serie di dettagli ripetitivi, risulta poco funzionale alla caratterizzazione di luoghi e personaggi. La sensazione di post produzione digitale permea, infatti, l’intero arco narrativo, già di per sè piatto e mal costruito. La voce narrante si trascina a fatica verso una pretesa di serietà mai compiuta. Come già capitato con Machete (2010) e Machete Kills (2013), Rodriguez non ha capito che la propria forza potrebbe risiedere nell’esperimento una tantum, da creare e far morire nello stesso colpo.
A chiudere malamente questo quadro son le rappresentazioni delle figure femminili. Non essendoci alcun collegamento con il primo film, mancano completamente di motivazione. Il manierismo stilistico non risparmia il personaggio di Eva Green che, nel ruolo della donna di malaffare che ha fatto la fortuna del genere noir, si presenta in una nudità fedele al mezzo espressivo di origine. Senza conoscere le motivazioni di tale scelta, l’autoparodia della pellicola è completa.
di Alberto Rafael Colombo Pastran