Parliamo di Pace
È possibile classificare le nazioni e le grandi aree geopolitiche in base a fattori che ne determinino lo stato di pace?
La pubblicazione lo scorso 11 giungo del Global Peace Index (Gpi, indice globale di pace) è l’ultima autorevole constatazione che l’Africa sub-sahariana non ha più il primato delle guerre, del sottosviluppo e dell’instabilità politica. Ci vorranno molti anni perché questo cambiamento venga registrato dall’opinione pubblica internazionale, soprattutto in Italia dove le notizie sull’Africa sono cosi scarse ed approssimative, ma ormai è un fatto assodato. Di Gpi si parlerà il prossimo 26 giugno all’università Cattolica di Milano, con la partecipazione di oltre settanta studiosi di fama mondiale, alcuni dei quali sono stati fra gli iniziatori del Gpi, che viene ormai pubblicato annualmente dal 2007. Secondo i dati che saranno commentati a Milano, l’Africa sub-sahariana nel suo insieme ha un indice di pace più alto che non il Medio Oriente, il Nordafrica, l’ Asia meridionale, la Russia e l’Eurasia
È difficile misurare la pace. La pace ha dimensioni interiori, individuali e collettive, che sfuggono a misurazioni quantitative. Fra gli indici che il Gpi usa per misurare le pace c’è la percentuale di carcerati sulla popolazione totale. Un carcerato come lo è stato Nelson Mandela è un segno negativo o una grande speranza di pace per il futuro? Il cuore è in pace quando ci sono determinate condizioni esterne, o la pace nasce dal cuore? Veramente, la dimensione spirituale della pace sembra impossibile da catturare. Comunque l’uomo moderno vuole misurare tutto e ci prova anche con la pace. Lo sforzo è encomiabile. Per arrivare ai risultati della ricerca, l’Institute for Economics and Peace – un’istituzione nata in Australia, a Sidney, per iniziativa di Steve Killelea che sarà presente e Milano – esamina 158 paesi in base a 23 criteri fondamentali. Tali criteri comprendono la partecipazione a conflitti internazionali, il livello dei conflitti interni, di criminalità violenta, il numero di carcerati, il rispetto dei diritti umani, le spese militari ecc.
In parte, il risultato positivo per l’Africa subsahariana, commentano gli estensori del rapporto, riflette l’aumento della prosperità economica in tutta la regione, dove la crescita ha superato quello di ogni altra regione del mondo nel corso degli ultimi due anni, e, ironia della sorte, la tradizionale emarginazione dell’Africa dall’economia globale ha aiutato ad isolarla dall’impatto della crisi finanziaria globale.
Tuttavia “è chiaro che rischi possono sorgere dove c’è la percezione pubblica che i vantaggi di una rapida crescita economica nazionale non sono equamente condivisi. Per esempio, l’abbassamento in graduatoria del Burkina Faso è dovuto all’aumento della probabilità di manifestazioni violente, del numero di omicidi e di crimini violenti. La rabbia dell’opinione pubblica per l’alto costo dei vita e l’inadeguatezza dei servizi statali, nonostante forte crescita economica globale, ha già portato a un’ondata di violente proteste e scioperi, e il potenziale per ulteriori disordini rimane alto”.
“Frustrazione per l’ingiusta divisione dei profitti può anche portare a un aumento dei crimini violenti, o la percezione degli stessi, come emerge in Repubblica Centrafricana (CAR), Gambia, Mozambico, Niger, Tanzania e Togo.”
“Ciò che un certo numero di questi stati hanno in comune è l’aumento della longevità politica dei loro leader. Leader che sono al potere troppo a lungo sono spesso accompagnati da una marginalizzazione dei partiti di opposizione. Privata della possibilità di cambiare attraverso le urne, la popolazione cercherà il cambiamento con mezzi più violenti, come è stato nel caso del CAR”.
“Gli altri Stati che hanno notevolmente contribuito alla posizione in classifica di questa regione dimostrano che i conflitti hanno un impatto duraturo: La posizione della Costa d’Avorio nel 2013 è stata condizionata da un’ondata di violenze nella seconda metà del 2012, con una serie di attacchi nel sud del paese di cui il governo ha accusato le forze fedeli all’ex presidente, Laurent Gbagbo. La Repubblica Democratica del Congo continua ad essere colpita da un conflitto armato nelle province orientali del Paese, che a sua volta è alimentato da un ampio spostamenti della popolazione che dura da decenni, come pure dalla una mancanza di controllo del governo centrale, dalla competizione per il controllo delle vaste risorse naturali della regione, e dalle tensioni tra le diverse comunità e gruppi etnici. La posizione in classifica del Sudan è il riflesso delle tensioni di lunga data che ha portato alla secessione del Sud Sudan nel luglio 2011. Questo non ha risolto i problemi nell’area confinante che il nuovo Stato del Sud Sudan, mentre la Somalia non ha veramente recuperato sin dall’inizio del conflitto civile nei primi anni novanta.”
Che l’ingiusta divisone delle risorse e dei profitti, la concentrazione di potere politico in poche mani aumentino la possibilità di conflitto e che per superare conflitti lunghi e sanguinosi come quello del Congo ci voglia molto tempo non sono cose nuove, e qualche scettico potrebbe dubitare dell’utilità di simili ricerche e del Cpi. Ma la pace è cosi importante che non possiamo permetterci di non usare tutti gli strumenti possibili per capire come farla crescere.