Noah
L'ambientalismo universale
Conosciuto dal grande pubblico grazie alla direzione di due prove attoriali –Mickey Rourke in The Wrestler (2008) e Natalie Portman ne Il cigno nero (2010)- a cui son seguiti due importanti riconoscimenti (Leone d’Oro al 65º Festival di Venezia e Oscar alla miglior attrice, rispettivamente), Darren Aronofsky torna al linguaggio teistico del debutto cinematografico (π – Il teorema del delirio) tramite un kolossal che si riallaccia direttamente alla metafisica pura del lavoro che più ha diviso la critica (The Fountain – L’albero della vita).
Il soggetto di Noah affonda le proprie radici nel magma originario delle tre grandi religioni monoteiste e allo stesso tempo si smarca da qualsiasi genere di apparentamento, prendendo a piene mani da più fonti e testi apocrifi. Lo scheletro dell’episodio apocalittico è facilmente riconoscibile, dettagli e licenze fantasy un po’ meno. Il risultato è un’opera che in questo senso sorprende in maniera diversa, in funzione della formazione religiosa di ogni singolo spettatore. L’esempio più lampante è la rappresentazione filmica dell’origine delle cose: mentre la voce di Noè narra la teoria creazionista, le immagini suggeriscono la versione evoluzionistica tramite uno stop-motion in cui la figura di più specie animali si sovrappongono, mentre avanzano faticosamente fra vari ambienti naturali. Un’ambiguità di fondo che non può passare inosservata e innesca dinamiche di approfondimento culturale, come riconosciuto positivamente da diversi leader religiosi, al contrario delle posizioni integraliste di altri.
Noah è un film imperfetto, sbilanciato, melodrammaticamente schizofrenico. Aronofsky non ha alcun pudore nell’uso del linguaggio kitsch della Hollywood più commerciale. Maestosità visive e tecniche si sposano perfettamente col tono epico di un mondo popolato dalle discendenze di Caino e Set. La prima viene rappresentata come il carattere industriale dell’umanità, che produce, si espande, inquina senza ritegno. La seconda come quello più ambientalmente consapevole, minoranza assoluta di un pianeta che avrebbe deluso colui che lo ha creato. A guidare quest’ultima è il Noè intepretato Russell Crowe, adatto nell’interpretare il travaglio spirituale del protagonista, nonostante la tendenza monoespressiva dell’attore.
Il vero problema risiede nelle soluzioni di sceneggiatura della seconda parte del film, ossia nel modo in cui vengono gestiti tempi e spazi in cui si muovono i personaggi. Una scrittura più raffinata avrebbe sicuramente giovato a quello che resta comunque un portento visivo e un forte spunto intellettuale riguardo l’interpretazione della Genesi, dell’Antico Testamento, e quindi di quel seme culturale che civiltà oggi distanti in realtà condividono.
di Alberto Rafael Colombo Pastran