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Little Lhasa

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Sarti, babbuini e ravioli al vapore. Per le strade di Mc Leod Ganj si scopre come potrebbe essere un Tibet libero

C’è una piccola gemma incastonata tra i picchi innevati del Dhauladhar, il versante indiano della catena montousa himalayana. Ѐ il simbolo di una popolazione che non ha ancora gettato la spugna nonostante i soprusi subiti in continuazione da ormai 64 anni. Sebbene si trovi a tutti gli effetti in India, la maggior parte delle 10mila anime che popolano Mc Leod Ganj è composta infatti da rifugiati tibetani. Per questo c’è chi la chiama affettuosamente “Little Lhasa”.

Nel 1959 Tenzin Gyatso, il quattordicesimo Dalai Lama, scappava dalla sua terra natia in seguito ai tentativi della Cina Maoista di integrare il Tibet a tutti gli effetti nella Repubblica Popolare Cinese. L’India gli offrì rifugio in un sobborgo di Dharamsala, città nello stato settentrionale dell’Himachal Pradesh. Da quel giorno la piccola Lhasa è diventata meta di pellegrinaggio, non solo per i monaci buddhisti di tutto il mondo, ma anche per tutti quelle persone vogliose di dimostrare il proprio supporto alla causa tibetana.

Camminando per le strade di Mc Leod Ganj si può avere una prima, per quanto vaga, idea di quello che potrebbe essere il Tibet se fosse libero dall’oppressione cinese. Botteghe cuciono i tradizionali chupa – tipici vestiti tibetani dalle lunghe maniche – su misura. Minuscoli ristoranti servono i momo – versione tibetana dei classici ravioli al vapore – in zuppa. Ma soprattutto monasteri dove vengono tramandate le tradizioni e gli insegnamenti della cultura buddhista e tibetana seguendo quegli stessi rituali che oltre il confine potrebbero significare una vita da spendere in galera. In più ci sono gli aspetti del villaggio indiano che si mescolano con le tradizioni tibetane: i negozianti fanno cenno di sì ciondolando la testa a destra e a sinistra, mentre le vacche magre e sporche vanno a zonzo liberamente per le strade e si fermano ogni tanto a rovistare tra la spazzatura. I babbuini le osservano dall’alto, divertendosi a saltellare tra un edificio e l’altro, a volte facendo fare scintille ai cavi dell’elettricità e lasciando quindi il paese al buio per qualche ora.

Ma aldilà dei quadretti pittoreschi che mandano in sollucchero il turista occidentale, la Piccola Lhasa sa essere un covo di storie che lacerano l’anima. I tibetani sono un popolo forte e orgoglioso che non si lascia andare facilmente all’autocommiserazione. Tuttavia questo non significa che il loro dolore non sia reale. Chi arriva in India lo fa spesso e volentieri lasciandosi alle spalle famiglia e amici, abbandonando tradizioni antichissime e andando incontro ad un futuro incerto.

E poi, ovviamente, c’è tutto quello che succede oltre quelle montagne abitate dalle nevi perenni e attraversate da uomini, donne e ragazzini in cerca di libertà. Arresti arbitrari, condanne che vanno oltre i vent’anni di carcere per aver composto una poesia e campagne di “rieducazione politica” per chi viene sorpreso in atti sovversivi, come ad esempio portare con sè una foto del Dalai Lama. E ancora, le proteste non violente dei tibetani, come l’autoimmolazione. Il tre dicembre scorso si è verificato il centoventitreesimo caso, e sono in pochissimi a pensare che possa essere l’ultimo. Kunchok Tseten si e’ cosparso di benzina e si e’ dato fuoco nella città  di Meruma, nella regione autonoma tibetana di Ngaba. Fino all’ultimo respiro ha chiesto a gran voce il ritorno in paria del Dalai Lama e la fine dell’occupazione cinese in Tibet.

Il sole sprofonda nella valle di Kangra, che nasconde Little Lhasa, e improvvisamente la temperatura si abbassa di parecchi gradi. Entro le nove di sera saranno in pochi a girare per strada. Solo le mucche, onnipresenti, e gli ubriachi in cerca di zuffe molto poco buddhiste.

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