L’anno nuovo e i serpenti.
Condividere la vita è la radice della gioa cristiana.
Non avrei potuto
cominciare meglio il 2016. Il mattino del primo gennaio mi sono
svegliato all’alba, e, come sempre quando sono qui a Mthunzi, la casa
per ex-bambini di strada di Lusaka (Zambia), sono uscito dalla mia
stanza, passato di fronte al piccolo appartamento dove vive con la
famiglia il nostro educatore Chakwe, e mi sono affacciato sul
cortile, per respirare l’aria di casa. Tutt’intorno ci sono i
dormitori, il refettorio, il vecchio deposito di granaglie adattato a
salone per gli incontri. Tutti locali molto dimessi e poveramente
arredati. Il grande cortile – con la maestosa jacaranda che quando
fiorisce in settembre fa sfigurare la bellezza del cielo, e le
generose piante di avocado che in questi giorni ci nutrono – ha
ospitato dal 1982, quando siamo venuti ad abitare qui, celebrazioni
natalizie e pasquali, funerali e matrimoni, battesimi e competizioni
di danze tradizionali. Per me è un album dei ricordi. Ogni pianta,
ogni siepe, ogni muro mi parla, mi ricorda le persone che c’erano
quel giorno quando le abbiamo messe a dimora, quando abbiamo
trasformato il locale del mulino in biblioteca, aggiustata quella
porta, costruito quel muro. Anche i ragazzi adesso si svegliano.
Alcuni per il caldo hanno messo il materasso per terra, all’aperto.
Appena mi vedono vengono a salutarmi, riportandomi al presente.
Camminando, correndo, saltellando come fanno i più piccoli, alcuni
ancora insonnoliti. Tutti, quasi cinquanta che sono, vogliono
abbracciarmi e augurarmi un anno felice.
Ci eravamo dati la
buonanotte solo quattro ore prima, quando eravamo già nel nuovo
anno. Lo avevamo aspettato dopo aver celebrato un messa di
ringraziamento, condiviso una semplice cena con tanta polenta, tanti
fagioli e una salsiccia a testa. Poi loro hanno cantato, battuti i
tamburi e ballato fin quasi a mezzanotte, quando abbiamo festeggiato
con biscotti secchi e succo di frutta.
Stanno finendo di
salutarmi quando arriva Mama Edina, la cuoca, e le corrono incontro,
e subito Edina assegna le incombenze per il mattino, chi prepara la
colazione festiva di riso bollito e zuccherato, chi lava i piatti
usati ieri sera, chi pulisce i dormitori e poi tutti a mettersi la
maglietta più pulita e più bella per avviarsi alla messa nella
chiesetta della parrocchia ad un chilometro da qui. Arriva Chakwe che
mi si metta a fianco e mi dice “Mai percepito la felicità dei
ragazzi come nella Messa, la cena, le danze di ieri sera. E’ stato un
unico ininterrotto momento di gioa. Questi ragazzi sono veramente una comunità”.
Poi aggiunge “Dopo cena ho chiesto a Matthew cosa lo rendesse cosi
visibilmente felice, e lui mi ha risposto: perché qui ci vogliamo
bene. Vorrei fossero qui quelli che ieri sera si sono istupiditi di
birra in un pub, tra loro anche i miei cugini. e capissero che nella
vita ci sono cose più belle. A volte con loro preferisco far
silenzio, perché se tento di spiegare la gioia del Natale e di
Capodanno come li viviamo a Mhunzi, i loro sguardi di sufficienza mi
farebbero morire le parole in gola. Quant’è difficile comunicare le
cose belle, e il benessere del cuore”.
E sempre difficile
comunicare le cose vere e semplici: troppo facile scadere nel
dolciastro e nel banale, suscitando sorrisini di compassione. Ma non
dobbiamo stancarci di farlo, anche se non siamo i comunicatori ed i
poeti che vorremmo essere e che sarebbe necessario essere per
riuscire a comunicare il bene. Facciamo quel che possiamo.
E’ molto più facile
comunicare il male, spronare al male. E’ cosi ovunque, in ogni
comunità umana. Anche qui, nel clima idillico di Kivuli, i bambini a
volte manifestano prepotenza, sopraffazione, astute strategie per
dividere e dominare. Mi è venuto in mente che in Italia le persone
che sanno risvegliare le peggiori reazioni atavicamente egoistiche si
dice sappiano “comunicare alla pancia della gente”. La pancia è
una parte nobile del corpo che non merita di essere associata al
peggior egoismo. Essa ci segnala la fame, che si ci sprona alla
ricerca del cibo, ma per l’uomo la fame è anche cibo da condividere,
e Gesù usa la fame per descrivere il forte desiderio di giustizia.
Addirittura nella tradizione cristiana si parla di “viscere di
misericordia”. Non mi pare ci sia nessuna parte del corpo umano –
tutto nobile – che si possa usare come metafora di una comunicazione
negativa. Allora ho chiesto a Matthew (un sedicenne che aveva
iniziato il 2015 in strada, dove era stato costretto a mendicare dal
padre alcolizzato) a chi o che cosa paragonerebbe le persone che
seminano odio e quelli che li ascoltano. Mi ha risposto sicuro: “sono
serpenti che parlano al serpente che è in noi”. Sapienza antica.