La neve e i siriani
Il racconto letto alla Casa delle Letterature nell'ambito dell'iniziativa culturale "Un altro Natale"
Ispirato a un reale fatto di cronaca: la morte di un neonato di sei mesi ad Aleppo
Nevica ad Aleppo, in Siria, nevica ad Arsal, in Libano, e nevica anche a Zaatari, nel deserto giordano, dove l’anno scorso due bambini siriani morirono a causa di una polmonite, resa letale dall’abbassamento improvviso delle temperature.
Era dicembre, e le organizzazioni umanitarie si preparavano, come quest’anno, a prevenire la tragica eventualità. Eppure accadde, com’è accaduto pochi giorni fa.
Quest’anno il freddo si è portato via Hussein Tawil, un neonato di soli sei mesi, ad Aleppo. Perché ad Aleppo nevica. Nevica, come quasi tutti i Natali, da settemila anni a questa parte. Però quando un bambino muore a causa del freddo durante una guerra che pompa milioni di euro spesi ogni giorno in aiuti umanitari, bisogna gridare allo scandalo e far finta di stupirsi che ad Aleppo nevica.
Tutti iniziano a dire che le tende dei profughi non sono abbastanza sicure, stabili e riscaldate, che in Siria ci sono persone che vivono in case con pareti sfondate da dove entra vento e pioggia.
Hussein Tawil, dice sua madre, anche se era un piccolo musulmano, avrebbe voluto festeggiare il suo primo Natale e non perché Natale sia una festa islamica, ma perché durante una guerra ogni occasione è buona per festeggiare. Ogni evento che spezza la routine diventa psicologicamente importante. Anche la neve.
Prima di morire Hussein Tawil ha visto i suoi cuginetti e fratellini giocare con i fiocchi di ghiaccio che continuavano a cadere da tutto il giorno. Quella mattina si erano svegliati vedendo un manto bianco sopra gli edifici bombardati nel loro quartiere di periferia.
“Guarda mamma, le case sembrano meno brutte!” aveva detto Hammudi, il fratello maggiore di Hussein Tawil.
“Andate giù a giocare. Oggi non bombarderanno”, aveva consigliato la madre. Perché ad Aleppo la guerra c’è da tre anni e le donne hanno capito che, con la neve, c’è scarsa visibilità e gli aeroplani non si alzano in cielo per rovesciare razzi.
Hammudi, il giorno prima che morisse suo fratello, aveva voluto fare un pupazzo di neve pensando a quello che aveva stampato sul suo libro di arabo, quando andava a scuola, prima che il tetto dell’istituto divenisse una postazione per cecchini.
Dopo pochi minuti però le mani avevano iniziato a gelare, perché non aveva i guanti.
Meglio lanciare manate di neve sulle cugine, aveva pensato, almeno finché le dita riescono a muoversi. Finito di giocare Hammudi era salito con gli altri cugini e fratelli a casa, sperando che suo padre avesse trovato qualcosa da bruciare dentro la stufa.
Ma niente, quella sera proprio non ce l’aveva fatta, comunque, non era la prima volta. Conoscevano già la soluzione, dovevano dormire tutti stretti stretti, abbracciati, sotto le coperte. Hussein Tawil però, non se n’era accorto nessuno, da giorni covava nel suo piccolo corpo una terribile polmonite, aggravata dall’improvviso abbassamento delle temperature.