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L’altro uomo: Lyndon Johnson

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Il successore di Kennedy viene spesso dimenticato. Ma è grazie a lui se l'America cambiò davvero

Quel giorno a Dallas, mentre la parabola politica di John Fitzgerald Kennedy finiva nel più traumatico dei modi, quella di qualcun altro stava per iniziare. Mentre il cranio del presidente esplodeva, il vicepresidente Lyndon Baines Johnson si trovava al riparo sotto un corpulento agente della scorta (che si era gettato su di lui al primo segnale di pericolo) e cominciava a capire che era arrivato il suo turno. Poche ore dopo, a bordo dell’Air Force One che trasportava anche il cadavere del suo predecessore, Johnson diventava 36esimo presidente degli Stati Uniti in quello che rimane il giuramento più convulso mai celebrato.

La presidenza, Johnson la inseguiva da almeno un decennio. Nel 1960, quando Eisenhower si preparava a uscire di scena, chiunque avrebbe scommesso che il prossimo a sedere alla Casa Bianca sarebbe stato proprio il texano Johnson, leader dei Democratici al Senato, nato nella miseria più nera e arrivato al vertice grazie ai contatti giusti, a una smisurata ambizione e a un innegabile talento. Ma a sbarrargli la strada alle primarie era arrivato Kennedy, forte del suo potere economico-mediatico e della sua energia giovanile. Fu solo per aggiudicarsi i voti degli stati del Sud che JFK, in tutto diverso da Johnson, gli offrì la vicepresidenza. Dopo la vittoria, per il vicepresidente iniziò un incubo lungo tre anni: la squadra di governo, un dream-team di rampanti professionisti della East Coast, lo considerava un incrocio fra un politicante da strapazzo e un rozzo cowboy, e lo relegò a un ruolo marginale. Johnson, fino a pochi mesi prima dominus della politica americana, cadde nel baratro della depressione. 

La dicotomia Kennedy-Johnson, in realtà, rifletteva un cambiamento epocale della politica statunitense e non solo. Johnson era un politico vecchia scuola, abile nell’intessere relazioni, annusare l’aria delle aule parlamentari, passare leggi conquistando i voti uno a uno grazie a tecniche persuasive e minatorie. Kennedy non era quasi mai in senato (anche per motivi di salute) ma era spessissimo in tv. Con lui iniziava l’era della politica-spettacolo, in cui a vincere era il più bravo nell’utilizzo dei nuovi strumenti della comunicazione di massa.

Si passò così dall’efficacissimo “Johnson Treatment” – una sorta di pestaggio verbale a cui Johnson, uno e novanta di stazza, sottoponeva individualmente tutti coloro che voleva convincere- agli appassionati discorsi kennediani , confezionati dall’esperto speech-writer Ted Sorensen, e recitati davanti a folle in visibilio.

Non sorprende che JFK fosse un idolo delle folle (e rimanga ancora oggi in cima alle classifiche di gradimento) mentre il goffo Johnson fu ridicolizzato come vicepresidente e svillaneggiato da presidente: carisma e popolarità erano di gran lunga le più grandi (se non le uniche) qualità di Kennedy, così come la scaltrezza e la comprensione dei meccanismi più intimi della macchina politica statunitense (doti non apprezzate dalla cittadinanza, che diffida di chi sguazza nelle stanze del potere) erano il midollo di Johnson.

Ciò porta al paradosso che l’abilità mediatica di Kennedy –un presidente tutto sommato dimenticabile, non fosse per la giovane età, i capelli rossi e la morte tragica– gli abbia guadagnato, nell’immaginario collettivo, delle medaglie che spettano invece al machiavellismo di Johnson, addossando di converso a Johnson colpe che sarebbe giusto attribuire a JFK. Il nome di Kennedy, infatti, è spesso associato alle battaglie per i diritti civili degli afroamericani o alle politiche sociali per la lotta alla povertà. Si dimentica che tutte le leggi in materia furono firmate da Johnson dopo la morte di Kennedy – sarebbe meglio dire che furono passate a suon di ceffoni, grazie al vecchio “Johnson Treatment” –  e che la sciagurata guerra del Vietnam, che segnò a vita Lyndon Johnson, fu in realtà un retaggio kennediano.

L’assassinio di Kennedy fu ironicamente l’evento che permise a entrambi gli uomini di fare del loro meglio. Per Johnson, fu non solo l’occasione di ascendere al potere tanto agognato, ma anche il perno retorico su cui si incentrò la sua instancabile attività riformista. Nonostante i tentativi di Kennedy nel campo dei diritti civili fossero stati modesti, Johnson fece del predecessore un campione degli afroamericani, e si servì del suo cadavere per costringere anche i più restii ( che non volevano tradire “la memoria di Kennedy” davanti al paese) a votare le leggi che equipararono finalmente bianchi e neri. Idem per le misure anti-povertà (l’assassino di Kennedy non era forse un poveraccio reso folle dall’indigenza?) e per la prima, vera, regolamentazione delle armi da fuoco che l’America avesse mai avuto fino a quel momento (dopo le morti violente di JFK, Martin Luther King e Bob Kennedy, ammonì Johnson, non era il caso di darci un taglio?)

Per Kennedy, invece, ciò che successe a Dealey Plaza fu la definitiva incoronazione politica. Il leader assassinato diventò, non troppo meritatamente, un’icona progressista mondiale. Quei tre proiettili trasformarono il presidente pop-star in una leggenda. Mentre il “Johnson Treatment” cambiava l’America.

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