JFK: un progressista inventato?
Kennedy è un'icona della sinistra europea. Ma c'è chi lo dipinge come un reazionario
Nel campo della sinistra europea e del progressismo mondiale vi sono simboli, rappresentati da specifici uomini politici, che identificano dei veri e propri punti di riferimento per l’azione politica di molte forze partitiche. E’ il caso dell’esperienza socialista che in molte realtà europee, basti pensare alla svolta del New Labour blairiano e alla fine dei Democratici di Sinistra italiani che hanno dato vita al Pd assieme ad una rilevante componente liberale e cattolico-democratica. Tutti movimento politici in grado di sfruttare alcuni personaggi politici del passato per inserirli nel proprio Pantheon ideale e per poi avviare una svolta politica a 360 gradi.
Uno di questi personaggi è l’indubbiamente carismatico 35° Presidente degli Stati Uniti d’America John F. Kennedy. La sua giovane età, tuttora risulta essere il più giovane presidente della storia statunitense, la sua immagine e la sua presidenza, collocata dopo otto anni di Eisenhower, hanno reso questo personaggio un’icona del progressismo mondiale. Un’immagine che ha visto nella sua tragica morte, avvenuta per mezzo di un attentato a Dallas cinquant’anni fa, la fine di un sogno e una linea politica “spezzata”.
A rendere ancor più chiaro questo frammentato ed ambiguo quadro, utilizzando però elementi originali spesso non considerati, è l’interessante libro del giornalista di Radio Radicale Lanfranco Palazzolo “Kennedy Shock”, che intende smascherare la fittizia immagine di Kennedy progressista. Il grande merito del libro è che non è una critica politica alla gestione e alla presidenza di Kennedy, ma è uno studio documentato sul retroterra ideologico (anche se in certi frammenti pare sussistere solamente un bieco cinismo) e culturale del primo presidente cattolico d’America. E per farlo si parte da un tema che è un macigno, difficile da non considerare: il legame familiare.
Nel primo capitolo infatti, “Le colpe dei padri”, Palazzolo analizza al meglio la figura del padre di John, il patriarca Joseph. Joseph Kennedy è ritratto come un personaggio di raro cinismo, contrario all’ingresso americano e britannico nella Seconda Guerra Mondiale (pare fosse un fan di Chamberlain, e ciò come si vedrà lo vede diverso dal figlio) proprio per questo motivo perse l’incarico e tornò negli Stati Uniti dove si dedicò ad una sua personale e perversa missione: aumentare il proprio potere familiare. Un suo figlio doveva entrare in politica. Essendo morto in guerra il primogenito si punta sul giovane John, vivo per miracolo dal secondo conflitto mondiale e desideroso di ben altro rispetto ad una discussa carriera politica. Dopo l’elezione alla Camera dei Rappresentanti, l’elezione al Senato di Kennedy nello stato del Massachusetts è macchiata dai brogli e dal soccorso del repubblicano conservatore Taft, desideroso di sfavorire il suo rivale di partito repubblicano che lo aveva battuto alle primarie senatoriali.
Dopo aver analizzato “le colpe dei padri”, si continua con un capitolo che rappresenta il succo del messaggio del libro: nonostante sia dipinto come un campione del riformismo internazionale Kennedy in realtà era di idee reazionarie e destrorse. Per farlo capire si citano due libri dell’allora senatore che effettivamente risultano essere intrisi di ambiguità: in “Perché l’Inghilterra dormì” Kennedy cita ed omaggia il suo mito di gioventù Winston Churchill, criticando la politica dell’appeasement dei governi precedenti (su questo dunque si discosta dal padre) e analizzando cosa portò ad un tardivo intervento britannico in guerra. Qui forse il libro di Palazzolo pecca di partigianeria: si sostiene infatti che l’anomalia kennedyana sarebbe rappresentata proprio da questo suo amore per Churchill, campione dei conservatori, ma anche sostenitore di certi regimi dittatoriali in primis il fascismo in Italia. In realtà già il fatto che Kennedy elogiasse un conservatore è di per se un elemento di critica. Ma non sufficiente, in quanto quando si parla di Churchill si parla di una personalità politica riconosciuta ed apprezzata da molti (ricordiamoci che, nonostante Berlusconi non ne sia a conoscenza, in molte cancellerie occidentali e democratiche del dopoguerra si apprezzava la figura di Stalin proprio in merito alla sua lotta contro il nazionalsocialismo) e quindi Palazzolo ha dovuto inserire elementi che collegano Churchill all’esperienza fascista italiana per poi accostare Kennedy a quei regimi per paventare una presunta simpatia. Presunta simpatia dedotta da un aneddoto riguardante Kennedy che un giorno, in pieno regime hitleriano, girò in macchina con dei suoi amici per la città di Berlino stupendosi più che dai roghi dei libri dall’astio con cui era accolta dalla popolazione locale la sua macchina targata Uk.
Più interessante appare l’analisi di un altro libro di Kennedy chiamato “Ritratti del coraggio”. Che cos’è “Ritratti del coraggio”? E’ un libro che in Italia sarebbe impossibile scrivere: il senatore Kennedy omaggia otto grandi senatori che nel corso della storia degli Stati Uniti si sono contraddistinti per il loro coraggio e per essere andati molto spesso contro la volontà del loro partito. Tra questi otto senatori ci sono personaggi discussi e di simpatie neo-conservatrici, tra cui sempre il famoso Taft che a quanto pare aiutò molto la famiglia Kennedy nella propria scalata politica. Di grande interesse è la vicenda di “Ritratti del coraggio” nella sua edizione italiana: fu stampata dalla casa editrice di destra de “Il Borghese” in quanto molto apprezzato dagli ambienti di destra italiana. Per la prefazione al testo si intendeva far scrivere qualcosa all’allora senatore a vita Luigi Sturzo che però morì proprio nel 1959, prima di poter iniziare il lavoro. Fu scelto allora l’ex Presidente della Repubblica Luigi Einaudi che introdusse, pur ammettendo di non essere un grande esperto, l’opera kennedyana. Il giornalista conservatore Prezzolini era senz’altra uno dei principali sostenitori italiani del giovane candidato alle presidenziali.
Palazzolo continua illustrando alcune strane analogie politiche tra l’azione di John F. Kennedy e i regimi abbattuti nel corso della Seconda Guerra Mondiale: un vigoroso piano di educazione fisica voluto per rafforzare il cittadino medio americano, una produzione cinematografica sulle gesta del presidente Kennedy nel bel mezzo della guerra e un’analisi del discorso sulla “Nuova Frontiera” in cui più che all’individuo si parla di collettività nell’accezione hegeliana ed eccessivamente statalista del termine. Sul maccartismo invece, a una prima simpatia nei confronti delle norme contro il Partito Comunista Statunitense, si accompagna un certo scetticismo da parte del senatore. A tratti, nel quadro d’insieme, Kennedy appare come il continuare di Eisenhower ben più del suo sfidante Nixon (che dell’ex generale era il vice!) Addirittura Martin Luther King in una prima fase pensava di sostenere Nixon anche perché temeva Kennedy in quanto cattolico. L’opportunismo e una forma di adulazione di Kennedy però portarono il pastore nero a sostenere poi, ma non molto convintamente, il candidato del Partito Democratico.
Il dato più interessante riguarda forse la politica estera e le due vicende dello smacco della Baia dei Porci e dell’inizio del conflitto vietnamita: Palazzolo racconta delle discussioni parlamentari in Italia sui due temi. E il copione è sempre lo stesso: il centrosinistra, socialisti in testa, criticarono l’operato di Kennedy per il suo fallito tentativo della Baia e per la crisi dei missili su Cuba mentre il neo-fascista Movimento Sociale Italiano rivendicava la positività dell’azione kennedyana in quanto tesa a rovesciare un regime comunista come quello di Fidel Castro. Il tutto mentre il governo guidato da Amintore Fanfani (uno dei miti di Kennedy che aveva letto in piena guerra la risposta dell’aretino al weberiano “L’etica protestante” basata sulla tesi secondo cui il capitalismo si era sviluppato in Germania due secoli prima della riforma luterana e che quindi non c’era alcun nesso tra la dottrina della predestinazione e lo sviluppo economico dei paesi riformati) bofonchiava un sostegno italiano ad una risoluzione sostenuta da Argentina e Uruguay e contrapposta ad analoghe mozioni di Messico, Urss e Romania (l’eresia romena si faceva sentire ben prima di Ceasescu…).
Il libro è un’operazione analoga che però si espande fino a teorizzare non solo una forma di conservatorismo di Kennedy (conservatorismo ben presente nella figura del padre Joseph) ma anche una forma di simpatia nei confronti dei regimi propriamente non democratici. Come si fa per sostenere ciò? Si può parlare della tesi di Kennedy secondo cui, in tempo di guerra, le dittature sono sempre favorite e più pronte all’azione rispetto alle democrazie. Ma non sono tesi nuove ed in certi casi non sono tesi erronee. E’ noto che in un paese dove non si vota c’è una maggiore predisposizione alla politica estera rispetto ai paesi democratici. Solo per il fatto che si può possedere lo stesso ministro degli esteri per svariati anni (è il caso di Gromyko che fu ministro degli esteri sovietico dal 1957…al 1985!). E si può parlare di queste cupi simpatie kennedyane facendo l’esegesi dei suoi discorsi. Troppo statalisti ma al tempo stesso intrisi di risentimenti nei confronti del mondo sovietico. Come insomma ebbe a dire la scrittrice, ora vera e propria icona libertaria anche per i nuovi “Tea Party”, Ayn Rand quella di Kennedy sarebbe una “Nuova Frontiera Fascista”. Ma per arrivare ad affermazioni di questo tipo non sono sufficienti personalità di parte come la Rand. E forse nemmeno qualche confuso scritto giovanile del futuro Presidente.
Già assodare e riconoscere unanimemente che Kennedy non era un riformista al 100 per cento potrebbe essere una notevole vittoria culturale. Se ci si avventura nell’entusiasmante strada delle assonanze para-fascista di Kennedy…si rischia di cogliere soltanto qualche verità. Ma anche di naufragare nell’oblio del buon vecchio “complottismo”.