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Immaginare la pace a Nairobi

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La pace è come quando ci sediamo insieme a mangiare e condividiamo il cibo.

La sera a Kivuli, la prima casa per ex-bambini di strada che abbiamo aperto a Riruta, estrema periferia di Nairobi, quando è possibile ceno con alcuni dei ragazzini. La mia cucina è piccola e stasera ne ho invitati solo sette degli oltre cinquanta che formano la grande famiglia di Kivuli. Sono tutti fra gli otto e i dodici anni, a parte Niko, ed hanno vissuto insieme in strada a Kibera, il più grande slum di Nairobi. Da qualche mese hanno formato un coro che domani si esibirà in una parrocchia, presentando un loro DVD di canzoni che ha come tema la pace.

Gli altri hanno già finito, si sono lavati le mani e adesso stanno sparecchiando e lavando le stoviglie. Simon, invece, sta ancora gustando gli ultimi bocconi di ugali, la polenta keniana, con uno spezzatino di carne e verdure. Qualche anno fa la fame lo spinse a rubare qualcosa da una bancarella e fu quasi ammazzato di botte. Se la cavò con l’avambraccio destro rotto, i suoi amici glielo fasciarono con bende e stecche di legno, cosi l’osso si è saldato male, e anche la mano è parzialmente anchilosata. Ecco perché Simon ha un po di difficoltà a mangiare usando la mano destra, come la buona educazione vorrebbe.

«Domani canterete anche Amka Kenya, la vostra canzone più bella, in cui esortate la gente a rinascere nella pace. Siete capaci di spiegarmi cos’è la pace?», li provoco. Restano un po perplessi, a parte Andrew che sta per parlare, ma lo fermo e suggerisco che ci pensino bene aspettando che Simon finisca. Ci penso anch’io. Non è facile definire la pace. Da quando papa Paolo VI ha istituito la Giornata mondiale della pace, oltre quarant’anni fa, ogni anno il papa fa una riflessione sul tema. Ma una definizione di pace resta irraggiungibile, tante sono le componenti che entrano in gioco. Effettivamente, come questi bambini hanno intuito, solo la musica e la poesia sono adatte a farci assaporare la pace.

Quando siamo pronti, il tavolo della cucina sgombro e pulito, tutti seduti e pronti ad ascoltarci reciprocamente, ripeto la domanda. Il primo a lanciarsi è di nuovo Andrew, con l’audacia dei suoi 9 anni: «La pace è quando ci vogliamo tutti bene». Certo, concordano tutti; ma c’è anche qualche critica: la spiegazione è troppo vaga, cosa vuol dire che “ci vogliamo tutti bene”? Dopo altre risposte evasive, Twaha propone: «La pace è come quando ci sediamo insieme a mangiare e condividiamo il cibo. Tutti mangiano a sufficienza, senza litigare». Poi, guardando Simon, aggiunge: «Anche se qualcuno è più lento, bisogna rispettarlo».

Intervengo e sottolineo che hanno raggiunto un punto importante: la pace c’è solo se c’è giustizia, e una giustizia vera, che tenga conto delle necessità e dei limiti di tutti. Il cibo condiviso e sufficiente per tutti è poi un grande segno di giustizia, e di amore. Gesù non ha forse sfamato le folle? Ci mettono un po’ a elaborare il passaggio dal loro linguaggio concreto all’idea astratta di giustizia, ma si vede nei loro occhi che lo stanno facendo. Poi Niko, l’unico che arriva ai quindici anni, aggiunge: «Quando diciamo amore dobbiamo fare qualcosa per dimostralo, altrimenti è solo una parola». Riprendo io, evidenziando ancora la verità di quanto hanno detto: «La pace e la giustizia non possono essere solo un sentimento: devono diventare visibili nei gesti e nelle cose». Approvano. Hanno capito. Dovranno fare ancora il passaggio dal loro piccolo mondo alla grande società, ma sono certo che non dimenticheranno il nostro dialogo; i loro occhi, infatti, erano troppo attenti. Qualche altro breve commento, mentre si alzano per raggiungere gli altri che stanno già giocando in cortile, lo prova.

Mentre scendono la scala uno poi due poi tre intonano Amka Kenya. Dal cortile si uniscono prima quelli che stanno facendo esercitazioni di giocoleria, quindi anche quelli che giocano a pallone e gli spettatori. Canto e pace nel cuore della violenza di Nairobi.

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