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Il Divo Giulio

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La parabola del potere all'italiana

Giulio Andreotti. Il politico si, ma anche l’uomo. Era su questo che Paolo Sorrentino aveva scelto di concentrarsi quando decise di girare Il Divo. E con il magnetismo estetico che gli corrisponde aveva provato a raccontare la parabola del potere all’italiana. Riuscendoci senza errore.

Il ritratto geometrico, inquietante e oscuro dello statista, fotografato tra la Prima e la Seconda Repubblica (vale a dire nel momento in cui il suo ruolo cominciava a tramontare), sferrava un attacco obliquo ma violento soprattutto per la sua “non militanza”, al grande compromesso tra Male e Bene comune che con attitudine sorniona ma sotterraneamente aggressiva il senatore ha incarnato fin nel corpo curvo e sfuggente.

L’idea di umanizzarlo e al tempo stesso offrirne una rappresentazione mefistofelica che, sospendendo il giudizio, ribadiva la centralità della figura di Anderotti nella Storia del nostro paese, è la lettura più vicina al segreto della persona e del politico che Sorrentino potesse concepire. Una lettura tanto riuscita perchè capace, attraverso l’arte, di inquadrare il senso di una memoria collettiva patria che ha concorso a serbare e tramandare di Andreotti un’immagine sfocata, sempre in bilico tra realtà e leggenda, tra candore e ferocia, tra ironia e maleficio. Al pari dell’Italia stessa.

Andreotti vide il film in una proiezione privata accanto all’amico Rondi. Quello fu il giorno in cui perse il proverbiale controllo che lo distinse per tutta la vita. A vincere l’impenetrabilità di quel collo incassato nella schiena, più che l’elenco terribile di vittime rovesciate nello schermo e nella spirale musicale di Toop Toop dei Cassius, fu il monologo di Toni Servillo. La parentesi fantasiosa, onirica, la scena più azzardata del film. Quella che sembra colpire il politico, ma affonda l’uomo.

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