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Gli arabi e l’Olocausto

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La dichiarazione di Mahmoud Abbas e i conti aperti dell'Europa

C’è un improprio, seppur comprensibile, stato di meraviglia in queste ore circa l’affermazione del Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, che ha definito l’Olocausto “il crimine più atroce che l’umanità abbia conosciuto nella storia moderna”.

Certo, negli ultimi sessant’anni i palestinesi, per ovvie ragioni, non sono stati prodighi in messaggi di solidarietà verso le sofferenze che gli ebrei hanno subito per mano di altri e altrove, lontano dallo spazio in cui continua a consumarsi il conflitto più stagnante e senza prospettive di risoluzione della storia contemporanea. La riapertura delle negoziazioni e l’ultimo accordo tra l’Autorità palestinese e Hamas ovviamente collocano questa affermazione in una dimensione strategica della retorica politica. Tuttavia, una riflessione – o meglio un chiarimento – è forse opportuno, perché la condanna dell’Olocausto e il conflitto arabo-israeliano non sono due elementi ideologicamente connessi, né lo sono politicamente se si prendono in esame gli attori coinvolti in prima linea in questo conflitto, ovvero i palestinesi e gli israeliani. Coinvolgono, semmai, gli imperi coloniali –allora ‘mandatari’ – che favorirono l’occupazione ebraica della Palestina. L’enfasi meravigliata con cui l’affermazione di Mahmoud Abbas è stata ripresa da quotidiani e siti web nelle ultime 24 ore riflette, perciò, il pregiudizio consolidato verso un presunto “antisemitismo arabo”. E il nodo, spesso intrecciato ad arte per strumentalizzazione retorica e ideologica, è tutto racchiuso in una colossale differenza concettuale e storica tra antisionismo e antisemitismo.

Il primo termine si riferisce ad una istanza contraria agli obiettivi del ‘sionismo’, ovvero un movimento ideologico e politico che fin dalla fine dell’Ottocento si è impegnato a favore della creazione di una nazione e di uno stato ebraico. Il momento di simbolica fondazione del “progetto politico sionista” fu la conferenza di Berna del 29-31 agosto 1897, che individuò la Palestina come il luogo di elezione per la creazione dello stato ebraico. Come ha ben documentato la storiografia sull’Impero Britannico, la collaborazione tra i sionisti e Londra (dal 1920 potenza mandataria sulla Palestina), fu fondamentale per gettare le fondamenta del futuro stato di Israele – che vide luce nel 1948, mentre migliaia di palestinesi venivano espulsi dalle loro case e si dava inizio dell’espansione coloniale israeliana.

Il secondo termine – antisemitismo – si riferisce, invece, ad un atteggiamento che predica esplicitamente la discriminazione contro gli individui di religione ebraica, considerati come appartenenti ad una “razza”. La storica Helen Fein ha messo in evidenza come l’atteggiamento antisemita racchiuda anche tutta una serie di stereotipi negativi che si erano diffusi nell’Europa del primo Novecento sugli ebrei. La portata politica dell’antisemitismo – ben noto anche questo – riguarda invece una delle più nere pagine della storia dell’Europa che abbiamo il dovere di continuare a condannare e rievocare nei suoi aspetti più disumani.

Ma assieme al ricordo costante dello sterminio di circa 6 milioni di ebrei, compiuto nel cuore dell’Europa meno di un secolo fa, è anche bene ricordare che gli arabi non ebbero nulla a che fare con l’Olocausto, non lo idearono, né cooperarono con il regime del Terzo Reich che negli anni della Seconda Guerra Mondiale lo pianificò. Prima del 1948 gli ebrei vivevano, assieme ai musulmani e ai cristiani, ovunque nel mondo arabo, riflettendo quel pluralismo confessionale di cui il Medio Oriente è ancora, nonostante tutto, custode. Chiunque abbia viaggiato per il Medio Oriente ricorderà la presenza dei quartieri ebraici in molte città, dal Harat al-Yahūd di Damasco, al Mella’, tipico di tutte le città del Maghreb. A Beirut negli ultimi anni si è avviato, per esempio, il restauro di una sinagoga nel cuore della città. I luoghi, seppur rifunzionalizzati, ci parlano di un tempo in cui il conflitto e l’appartenenza etnica o religiosa in Medio Oriente non avevano il senso politico – o meglio “politicizzato” – che gli interessi di alcuni leader politici vi hanno voluto attribuire.

Non ci sono più ovviamente gli ebrei a Beirut e quella sinagoga resta il relitto di un tempo sepolto sotto le macerie di un conflitto irrisolto. La scomparsa degli ebrei dal Libano è tuttavia dovuto alla guerra del 1948, alle successive guerre arabo-israeliane e al flusso di rifugiati palestinesi della diaspora che ancora vivono confinati in campi disumani e che continuano a rappresentare un elemento di instabilità in un paese già fragile per costituzione. Si tratta di una questione squisitamente politica e storica. Per questo gli arabi sono spesso antisionisti: sono, cioè, vittime dell’esito di un progetto coloniale che continua a destabilizzare gli equilibri domestici e regionali del Medio Oriente. L’antisemitismo è però un prodotto europeo, che in Europa ha avuto i suoi effetti devastanti.

La sovrapposizione di antisemitismo e antisionismo è un’operazione intellettuale fraudolenta, così come lo è continuare a costruire l’immagine degli arabi antisemiti. Gli arabi pagarono solo il prezzo del risarcimento che l’Europa, svegliatasi dopo gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, sentì il dovere di dare agli ebrei per quello che avevano subito in Germania. Con questo noi europei e occidentali – colpevolmente – non abbiamo mai voluto fare i conti. Così come siamo noi, non gli arabi, che ancora dobbiamo fare i conti con l’Olocausto e con tutte le sue conseguenze.

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