Gendarmeria Messicana
Il presidente del Messico Peña Nieto non ha i numeri per riformare la polizia. E la guerra della droga continua.
Il futuro violento del Messico ha la faccia conciliante e gli occhi a mandorla del ministro degli interni Miguel Osorio Chong. A margine di una conferenza a Ciudad Victoria, Chong ha affermato che la formazione di una polizia unica messicana dovrà essere frutto della collaborazione fra i vari enti locali, non un’azione unilaterale del governo centrale. Sembrerebbe una dichiarazione di poco conto, burocratese da sbadiglio. Ma si dà il caso che la creazione di un comando unificato della polizia è una delle chiavi per fermare la sanguinosa narcoguerra messicana.
C’è un motivo se in Messico si parla di Guerra della droga, e non si tratta solo di sensazionalismo giornalistico. Cioè che da sei anni, a guidare l’offensiva governativa contro i carteles non è la polizia, ma l’esercito. Ciò che in un altro paese sarebbe una questione di ordine pubblico qui è un affare militare. Con tutte le conseguenze del caso: morti nell’ordine delle decine (alcuni dicono centinaia) di migliaia, scontri a fuoco con armi pesanti, città trasformate in teatri di guerra. La popolazione civile è stata spesso vittima di abusi o “fuoco amico”: un soldato ha un addestramento diverso da quello di un poliziotto: il suo habitat sono i campi di battaglia, non le metropoli.
Se l’ormai ex presidente Felipe Calderòn decise questo spiegamento, nel lontano 2006, non fu solo perché la scena criminale messicana si era arricchita di alcune schegge impazzite – come los Zetas – più simili a commando paramilitari che a gangster in doppiopetto. Fu anche,e soprattutto, perché le forze armate rappresentavano l’unico baluardo di onestà a fronte di una polizia frammentata in una miriade di commissariati statali e locali ammorbati dalla corruzione – di fatto controllati dalle gang.
L’unica maniera di riportare l’esercito nelle caserme, insomma, era ristrutturare la polizia.
Un progetto di riforma sponsorizzato da Calderòn mirava effettivamente a sostituire i tanti, inefficienti commissariati locali con un unico comando di polizia nazionale che potesse selezionare, addestrare e monitorare le reclute secondo standard più rigidi. Procedendo per gradi: il primo passo dell’integrazione avrebbe posto i comandi municipali sotto il controllo dell’autorità statale (il Messico è una federazione di stati: nome ufficiale “Stati Uniti Messicani”).
Oggi il presidente è cambiato ma la riforma non è passata – anche se un pugno di stati volonterosi hanno avviato un’unificazione delle polizie municipali. Gli ostacoli principali sono due. Il primo è legale: una polizia unica richiede una modifica della costituzione. Il secondo è politico: i sindaci sono fortemente contrari a un impianto che li priverebbe dei fondi versati ogni anno da Città del Messico per finanziare le forze dell’ordine municipali.
La dichiarazione del ministro Chong rivela che il presidente Peña Nieto non vuole impelagarsi in una snervante battaglia parlamentare per approvare il progetto. Non ha i numeri e lo sa. Così come sa che affidarsi alla buona volontà dei sindaci equivale a sperare che los Zetas gettino i mitra alle ortiche per formare un complessino jazz.
In campagna elettorale, Peña Nieto aveva promesso di sciogliere il nodo della sicurezza creando una Gendarmeria Nazionale che fosse un ibrido fra esercito e polizia (un po’ come i Carabinieri italiani). Al netto delle perplessità di fondo – la Gendarmeria dovrebbe essere formata da soldati d’élite, riproponendo il problema dell’ipermilitarizzazione del conflitto – a oggi nessun passo concreto è stato fatto in tal senso. Nel Piano di Sviluppo Nazionale rilasciato dal governo qualche settimana fa la Gendarmeria non è neppure menzionata. Nulla di fatto, insomma. Mentre la violenza continua.