L’East End, Francis Bacon e quel che resta di Soho
A ognuno la sua Londra. La vita del pittore Francis Bacon offre una visione unica della città
“London ?”
“Yes, London. You know: fish, chips, cup ‘o tea, bad food, worse weather, Mary Fucking Poppins…London” (Dennis Farina in Snatch).
A ognuno la sua Londra. Il mio primo ricordo risale all’estate del 2000.
Mattina e pomeriggio in studio a Liverpool Street nella City, la notte da Chinawhite quando era ancora ad Air Street e facevi due ore di fila per entrare, nel fine settimana ad Highbury a vedere i Gunners quando Bergkamp batteva l’angolo a due metri da te e i tifosi si inchinavano in onore di ‘King Dennis’.
Negli anni ho alternato la ‘fancy’ London delle cene da Ivy, al Dorchester, al Claridge’s, da Hakkasan alla ‘dodgy’ London dei locali ‘unlicensed’ di flamenco vicino a Tottenham Court Road, delle gallerie emergenti di Peckham, delle serate strepitose da Jaguar Shoes a Shoreditch, nel cuore del rinascimento dell’East End.
Il pretesto di questo flashback londinese me lo forniscono ‘London Calling, A Countercultural History of London since 1945’ di Barry Miles e ‘Francis Bacon. Una vita dorata nei bassifondi’ di Daniel Farson, che rievocano la Soho degli anni Cinquanta di Francis Bacon e delle sue serate interminabili da Wheeler, al Colony, al French Pub, al Gargoyle: un pezzo di storia della bohème del West End che non esiste più.
Francis Bacon nei suoi quadri ha raffigurato figure deformate, pontefici urlanti, carni squartate come a dire che la violenza è al centro della vita di ogni essere umano. A chi gli chiedeva se credeva nell’aldilà rispondeva: “Quando sarò morto, mettetemi in un sacco di plastica e gettatemi nella fogna”.
Tra passioni e litigi, Bacon ha comunque vissuto intensamente ogni attimo della sua esistenza, sempre fedele al ‘mantra’ di Nietzsche che amava citare: “La vita è così insensata che potremmo anche cercare di farne qualcosa di straordinario”.
Quel che resta della Soho di Bacon è forse quel tratto di Shaftesbury Avenue in cui resiste un tempio ‘cinephile’ chiamato Curzon che negli anni mi ha regalato splendidi pomeriggi di solitudine in compagnia dei film di Steve McQueen, Shane Meadows, Larry Clark e Jacques Audiard.